AL SERVIZIO DELLA SOCIETA'
Oltre alla fiaba per bambini Pierino e il lupo, i colpi ben messi a segno da Prokof’ev potrebbero essere anche i balletti Romeo e Giulietta e Cenerentola, la marcia da L’amore delle tre melarance e molti altri momenti di uguale profilo. È la smentita più palese del luogo comune che pretende la musica moderna completamente estranea al vivere ordinario, concetto che ovviamente corrisponde a una ben precisa e nuova realtà estetica sviluppata nel secolo che ci sta alle spalle ma che non rende ragione di tutto quanto esso musicalmente ha prodotto.
Prokof’ev, il musicista che per il taglio aggressivo e sferzante della sua scrittura pianistica fin dal suo debutto concertistico nel 1908 fu salutato come un ‘enfant terrible’, è colui che meglio di ogni altro ha mostrato come la musica moderna non fosse condannata a procedere a senso unico, come un’arrabbiata reazione al suo precedente storico. Ciò che più stupisce è infatti la contraddizione tra la violenza dell’impianto sonoro, che in Occidente ha fatto parlare subito di “bolscevismo” e la trasparenza formale che differenzia il compositore russo dagli altri suoi contemporanei.
Sergej Prokof'ev, Cenerentola
Se una delle vie che hanno portato la musica moderna verso i più lontani traguardi è stata quella dell’esplosione delle forme, o se vogliamo del loro azzeramento (Schönberg e la Scuola di Vienna in primo luogo), Prokof’ev non ha nulla da spartire con tale versante. E non vi partecipa non solo in quanto non ebbe nessun problema a comporre sonate, concerti, sinfonie, in un quadro strutturale che il Novecento ha prevalentemente negato, ma soprattutto in quanto la sua scrittura nei suoi minimi denominatori rivela il rispetto di un ordine costruttivo individuato nella tradizione e nelle abitudini di ascolto. Ciò non significa però che lo si debba considerare un epigono o addirittura un restauratore, come potrebbe parere attraverso una lettura superficiale della sua Sinfonia classica.
I dati della tradizione non vi sono infatti sviluppati, bensì ricomposti. In questo egli è stato certamente segnato dai movimenti estetici che hanno innovato la scena russa nei primi due decenni del secolo (prima della Rivoluzione), che vanno sotto il nome di cubo-futurismo. Sia in pittura, sia in poesia tali esperienze hanno addirittura preceduto il cubismo occidentale nell’arditezza delle soluzioni, nella deformazione espressiva, che in realtà è il processo di smontaggio della sintassi mirante a ricomporre i dati disarticolati che ne derivano secondo nuove norme.
Musicalmente Prokof’ev è stato probabilmente il primo compositore ad attuare in musica tale dimensione dello smontaggio e del rimontaggio dei dati linguistici che non tenesse più conto di imperativi ma di una libertà di punti di osservazione a confronto: l’ordine vi è rispettato come principio, non come resa incondizionata alle regole formanti della tradizione, bensì come necessità del valore comunicativo da mettere ogni volta in discussione. Ciò spiega il motivo per cui, a un critico americano che negli anni Venti si trovò per la prima volta di fronte a una sua composizione, questa gli suonava come un “Mendelssohn dalle note sbagliate”. Con questo egli si rendeva conto di toccare con mano un’operazione di smontaggio e rimontaggio che tra l’altro, prendendo prevalentemente come base di riferimento il linguaggio ottocentesco, produceva una sorta di ‘romanticismo’ estraniato, freddo e spassionato, che rimane la caratteristica più vistosa di Prokof’ev, su cui da una parte si fonda la capacità del pubblico (ancora oggi formato sulla retorica espressiva romantica) di accedervi e dall’altra il senso di parodia promanante dall’ascolto. Prokof’ev in altre parole non amava il disordine.
E questo spiega forse anche come gli sia rimasto nel 1917 spettatore non coinvolto della Rivoluzione. La rivoluzione in fondo era il caos, qualcosa che non poteva essere la risposta alla ricerca che egli conduceva, pur con tutte le aperture, in quegli anni. Il desiderio di espatriare in America, al di là della naturale aspirazione ad arricchire le sue conoscenze con nuove esperienze, probabilmente cela una ragione di questo tipo, confermata poi dai motivi che nel 1932 lo spinsero a rientrare in Unione Sovietica. Gli anni occidentali furono infatti un alternarsi di soddisfazioni e di delusioni. I successi non mancarono, soprattutto quelli procurati dall’abile regia di Sergei Diaghilev che gli commissionò vari balletti per i suoi Ballets russes (Chout, Le pas d’aciere altri) per esaudire la sete di novità del sofisticato pubblico di Parigi, di Londra, ecc.
In tali termini il rapporto col pubblico era troppo casuale e si rivelava incapace di rivelargli quel sostegno di interlocutore di cui egli abbisognava, di termine di confronto in grado di comprendere la sua lingua senza costringerlo a trovare pretesti per affermare i suoi progetti.
Furono quelli infatti anni di spaesamento, dichiarato agli amici parigini nel momento in cui nel 1932 maturò la decisione di rientrare in patria:
“Il clima straniero non giova alla mia ispirazione perché io sono un russo; uno di quegli uomini, cioè, meno adatti a vivere in esilio, in un clima psicologico che non sia quello della mia gente. I miei compatrioti ed io portiamo il nostro paese con noi […] Voi non potete capirlo pienamente perché non conoscete la mia terra; ma guardate i miei compatrioti che vivono all’estero. Sono drogati dall’aria di casa. Non c’è nulla da fare, non ne verranno mai fuori. Perciò devo tornare, devo ricominciare a vivere nell’atmosfera della mia terra: a vedere di nuovo un vero inverno, una primavera che esploda da un momento all’altro. Devo sentire la parlata russa nelle orecchie e parlare con gente del mio sangue e della mia carne, affinché mi diano qualcosa che mi manca qui: le loro canzoni, le mie canzoni, Qui perdo forza e rischio l’accademismo”.
Sergej Diaghilev
Il ritorno nell’URSS si giustifica però anche per un altro motivo, meno dichiarato anche se implicito. A quindici anni dalla Rivoluzione un nuovo ordine vi si era instaurato, il quale, indipendentemente dall’essere o meno condiviso (una vera professione di fede comunista in Prokof’ev è sempre stata assente), aveva stabilito condizioni capaci di promettere sviluppi nel rapporto tra arte e società. Il teatro d’opera e il teatro di danza, con accesso di pubblico sempre più allargato, sembrava garantire un interlocutore ben più credibile del pubblico raffinato e di parata che in Occidente guardava ai Ballets russes come a un fenomeno di esotismo, per non dire di moda. Quando sull’Izvestia nel 1934 egli scriveva “Quel che occorre innanzitutto è della grandemusica, della musica cioè, che tanto nella forma quanto nel contenuto risponda alla grandezza dell’epoca”, egli non si allineava tanto a una norma di partito (tra l’altro non ancora compiutamente sviluppata), ma esprimeva una propria convinzione: la ricerca di un obiettivo a cui sempre mirò, indipendentemente dal risiedere in URSS o meno.
Bozzetto per il costume del Buffone del balletto Chout
Quando nello stesso articolo egli si interrogava su quale tipo di musica necessitasse all’arte nella nuova situazione sociale e politica del suo paese (“penso sia quella che chiamerò ‘leggermente seria’ o ‘seriamente leggera’: essa dovrà essere innanzitutto melodiosa, e dalla melodia chiara e semplice, senza peraltro cadere nel derivativo o del triviale”), egli traduceva in formulazione ciò che già era il suo modo di comporre. Non si può dire con ciò che le sue opere degli anni Trenta e Quaranta subissero il condizionamento diretto della teoria del “realismo socialista”. Certamente balletti quali Romeo e Giulietta e Cenerentola, nel recupero dell’impianto narrativo e negli spazi ariosi verso cui orientano l’espressione, tengono conto dello stesso pubblico che si recava a teatro per assistere al Lago dei cigni o allo Schiaccianoci, ma non per adeguamento a un Diktat, bensì per intima convinzione.
Quando nel 1948 la famosa risoluzione del comitato centrale del PC dell’URSS attaccherà gli avversari della “musica russa realistica, i partigiani di una musica decadente e formalistica”, facendo un fascio di Prokof’ev, Sciostakovic, Mjaskovskij, Scebalin, ecc., egli non riuscirà nemmeno a crederci, poiché nessuno più di lui aveva preso le distanze dagli esaltatori del “soggettivismo, del costruttivismo, dell’estremo individualismo e della complessità tecnica del linguaggio musicale”, come suonava l’accusa di Zdanov. Evidentemente, di fronte alla degenerazione della politica staliniana, il suo lavoro non era bastato.
Il fatto che, nel momento più drammatico della sua esistenza, egli trovasse ancora la forza di reagire produttivamente, conferma invece come il suo bisogno di operare, di radicarsi nella società (di essere al suo servizio, funzionale), predominasse sulla tendenza all’affermazione individualistica. In fondo, per questi motivi e fra i compositori del Novecento, Prokof’ev è stato colui che meglio ha occupato, e umilmente, la funzione del musicista al servizio della società.
Oggi ne è ripagato più degli altri attraverso la popolarità raggiunta dalla sua musica.