IL MODERNO DOLORE DI PETRASSI
C’è qualcosa di anomalo nella formazione di Goffredo Petrassi rispetto ai riferimenti che valgono per la media dei compositori moderni. Egli stesso, tracciando la propria biografia, mise in risalto la sua condizione di fanciullo cantore nei cori delle basiliche romane che importa evocare non solo per evidenziare come il marchio della sua religiosità musicale provenga da lontano, ma anche per mostrare come il suo avviamento al destino di compositore sia avvenuto non per scelta intellettuale ma sulla spinta di una consuetudine, in una forma integrata al sistema sociale come raramente è dato di riscontrare nella biografia dei compositori del Novecento.
D’altra parte è anche vero che, nel giudizio sul compositore romano, si è forse abusato di questi dati d’origine. Il riferimento al «barocco romano» per la parte della sua esperienza compositiva che va fino al 1937 (Salmo IX) è diventato infatti un luogo comune pericolosamente semplificatorio e limitativo più che stimolante nei confronti di altre esperienze, anche europee, da lui subite.
Anche nel caso dei Mottetti per la Passione, risalenti al 1965, certamente la composizione suona in una dimensione prettamente italiana: la concezione corale a cappella vi segna una delle tappe significative di quel filone più o meno palese, più o meno sotterraneo, che si è voluto chiamare, con termine forse riduttivo, «neomadrigalismo», e che sicuramente riguarda la musica italiana dagli anni Trenta e oltre (fino a Luigi Nono e a Sylvano Bussotti in particolare). Ma i mottetti di Petrassi appartengono soprattutto alla stagione della sua esperienza contrassegnata dall’adozione del metodo seriale a cui egli approdò all’inizio degli anni Cinquanta, allineandosi con coloro che in tale orientamento l’avevano preceduto e nel confronto dei quali (come Stravinsky opposto a Schönberg) era considerato una specie di contraltare.
Non è qui il caso di discettare sul significato di questa scelta e di questo salto. Non sarà invece inutile considerare il senso e la portata della dodecafonia in relazione a un simile testo religioso messo in musica da Petrassi.
In una delle sue estrinsecazioni egli affermò di intendere la religione nel senso della speranza, di appiglio estremo per salvare l’uomo dall’angoscia e dalla disperazione. Tradotta in musica, tale esperienza nella dodecafonia trova allora appunto la sostanza necessaria a esprimere quella lacerazione dell’animo. Se nel fitto catalogo delle composizioni petrassiane, nelle applicazioni seriali tentate a più livelli, qualche perplessità può nascere intorno al rapporto di necessità tra esito e scrittura, in queste composizioni religiose non è certamente il caso.
La scelta «drammatica» è già evidente a un approccio esteriore. Innanzitutto non siamo posti di fronte a un testo liturgico qualsiasi ma a quello dei responsori della settimana santa in cui si libera la dimensione umana del dolore di Cristo. La sua rappresentazione assume poi toni assai più che enunciativi nel modo di adesione al testo, dove sulla polifonia predomina l’omoritmia, da una parte in funzione dell’evidenza suprema assegnata alla parola e dall’altra come base per l’organizzazione del discorso non a flusso continuo bensì a contrasti.
Questa è la premessa al contrasto a secondo livello instaurato dalla sostanza dissonante discendente dalla struttura seriale, giustificata quindi come messa in opera subordinata a valenza drammatica e che, sia nei rapporti armonici sia in quelli istaurati sul segmentato arco melodico, sprigiona quelle tipiche tensioni che solo la dodecafonia è in grado di produrre.
Affermare che la dodecafonia storicamente significhi solo questo è certamente riduttivo; sostenere che a tale livello d’espressione la dodecafonia sia in grado di conquistare una posizione di primato è invece indubbio e, a troncare sul nascere ogni discorso tendente a contestarla (Ansermet, ecc.), basterebbero esiti supremi come i Mottetti petrassiani nella loro insostituibile dimensione di moderno dolore.