L'ULTIMO DEGLI ISPIRATI
Personalità che segnò la rinascita dell'orgoglio ebraico in musica nel Novecento, Ernest Bloch (1880-1959) è compositore cosmopolitico per eccellenza. Ginevrino di nascita, formatosi a Bruxelles come violinista nella scuola di Eugène Ysaye, a Francoforte e a Monaco nella composizione sotto la guida rispettivamente di Iwan Knorr e di Ludwig Thuille, si affermò a Parigi nel 1910 con la rappresentazione del Macbeth, tappa iniziale della sua notorietà.
Nel 1916 emigrò negli Stati Uniti, di cui divenne cittadino, ma l'incapacità di adattarsi al modello di vita americano nel 1930 lo riportò in Europa. Dal balcone subalpino di Roveredo in Capriasca (Cantone Ticino), guardò all'Italia, Paese che più di ogni altro gli riservò attenzione e onori con la nomina ad accademico di Santa Cecilia, con la prima biografia a lui dedicata da Mary Tibaldi Chiesa uscita a Milano nel 1933, con la prima esecuzione del Servizio sacro ebraico composto a Roveredo, stampato da Carish a Milano e da lui diretto a Torino nel 1934, nonché con l'allestimento prestigioso del Macbeth concertato da Antonio Guarnieri nel marzo del 1938 al Teatro San Carlo di Napoli, purtroppo in un clima che, nel preannuncio delle leggi razziali, recise i suoi rapporti con l’Italia e con l’Europa minacciata dal nazismo, inducendolo a rientrare in America, nell'Oregon, dove terminò i suoi giorni.
Robert Mellon e Maria Natale in Macbeth di Ernest Bloch, alla Manhattan School of Music.
(Crediti: Hiroyuki Ito per The New York Times, 2014)
Il fondamento della sua estetica, una forma di umanesimo alimentato dal contatto diretto con la natura al di là di ogni sovrastruttura, fu ben colto da Mario Castelnuovo-Tedesco nella definizione data di Schelomo (1916): “un'anima messa a nudo”.
In verità il compositore fiorentino, che lo conobbe di persona proprio in quel periodo, dichiarò di avere avuto la rivelazione di ciò che poteva essere la musica ebraica (a cui avrebbe cominciato a fare riferimento) proprio da Bloch, dall’ascolto di Schelomo: “In quella musica fantasiosa trovai accenti doloranti, subitanei, rapimenti, improvvise depressioni, repentini entusiasmi", una vibrazione che, meglio dei canti sinagogali, era capace di trascinare l'ascolto nel vortice dell'"afflato biblico”.
Bloch stesso aveva indotto a tale decifrazione: “Non mi propongo né desidero tentare la ricostruzione della musica degli Ebrei e fondare l'opera mia su melodie più o meno autentiche. Io non sono un archeologo [...] È piuttosto l'anima ebraica che mi interessa, la complessa, ardente, agitata anima, ch'io sento vibrare attraverso la Bibbia”. Bloch non era guidato da una logica ortodossa nel recupero dei portati della cultura e della religione ebraici: l’identità ebraica è riscoperta da lui come la chiave d'accesso a un più profondo livello umanistico, come rivelò in una lettera ad Ildebrando Pizzetti: “Contrariamente a Wagner, il quale diceva agli ebrei: cessate d'essere ebrei, per essere pienamente uomini con noi, io penso, io credo, io sono convinto che ridiventando pienamente ebrei gli ebrei saranno pienamente uomini”.
Il suo credo si collegava a un’idea universale che non poteva appartenere ai soli profeti di Israele, ma coinvolgeva “i profeti delle altre razze, come Confucio, Budda, Cristo”. Oltre al fatto di essersi fatto ritrarre nel suo studio con un'antica statua di Cristo crocifisso, vi è la testimonianza all'amica Ada Clément a cui confidò il desiderio di comporre una messa: “Il Crucifixus evocherà non solo il Cristo ma ancora tutti coloro che hanno sofferto e sono stati crocifissi dall'uomo, dall'insanità, dalla stupidità, dalla crudeltà”. Sappiamo inoltre di come egli si fosse nutrito delle letture di testi buddistici, che Mary Tibaldi Chiesa vide rispecchiati nel colorito esotico del secondo movimento della Sonata per violino e pianoforte, aperto da un rarefatto ed ipnotico scampanellio negli acuti dello strumento a tastiera riconducibile all'ispirazione sonora nella pratica ascetica dei monaci tibetani.
Dedicata a Paul Rosenfeld, il quale aveva contestato la tendenza a collocare Bloch nella categoria restrittiva del “compositore ebraico”, indusse il critico americano a stabilire in un articolo del 1921 una relazione proprio tra questa composizione (tra le più veementi e selvaggiamente scatenate per asprezza politonale) e le Tentazioni di Sant'Antonio: “Essa ricorda la pagina, adamantina, ove il diavolo scaglia il santo sulle sue corna, e lo trascina nell’Empireo, tra i pianeti, dandogli la percezione dell'infinito della materia [...]. Anche nella musica di Bloch noi giungiamo a percepire, con occhio impersonale, le forze titaniche, virulente, incommensurabili, alle quali l'uomo si abbandona, piccolo, inerme, impotente [...] Nel rimbombo del pianoforte e nel canto impersonale del violino noi udiamo la natura, la natura prima dell'uomo, la natura grandiosamente impenetrabile per l'uomo e per la sua miseria, la natura che lo schiaccia senza pietà, e ne sommerge il lamento nella sua tempesta senza fine”.
Estraneo ad ogni tentazione estetizzante o costruttivistica, Ildebrando Pizzetti vide in lui "un uomo, un uomo che canta e soffre e ama anche per gli altri uomini, fraternamente", capace di rivelare l'umanità "a se stessa". Ciò indusse Massimo Mila a chiamarlo "l'ultimo degli ispirati". Le sue scelte di vita, il rifiuto della frenesia tecnologica delle metropoli e l'amore panteistico per la natura lo portavano fuori del tempo, a provare emozioni che il Novecento iconoclasta aveva soppresso. Constatando "il declino dell'ispirazione" ("nella musica di oggi conta soltanto il lavoro che vien dopo") il critico torinese poneva l'accento su Schelomo, su Baal-Schem e su "quelle musiche fervide e ispirate che egli scrisse nella stagione giusta, quando ancora era il tempo di quelle cose e simili frutti potevano maturare".
Sulla definizione di "musicista conclusivo più che un innovatore" non facciamo fatica a concordare, fermo restando che il secolo XX artisticamente non fu solo quello che ha marciato al ritmo del tempo battuto dalle macchine, dall'industria e dalle grandi masse.
Per lui l'arte era chiamata a tradurre l'esperienza spirituale vissuta al riparo dalle influenze materialistiche che non accettò mai intimamente, per cui gli fu sempre chiara la gerarchia tra mezzo e fine. Non a caso Castelnuovo-Tedesco lo definì "uno degli ultimi musicisti che avevano o credevano d'avere da dire qualche cosa di molto importante, molto più importante del modo con cui l'avrebbero detto".