WAGNER E LA SVIZZERA
Nella storia degli ultimi due secoli la Svizzera fu rifugio a più riprese di personalità e artisti perseguitati. Se la rispettiva scena musicale fa parte dell’internazionalità è sicuramente dovuto anche agli apporti venuti dall’attività in loco di tali personaggi. Per molti (Max Ettinger, Wladimir Vogel, Will Eisenmann, Sándor Veress ecc.) la Svizzera fu la destinazione ultima. Per altri fu un passaggio per altre destinazioni, oppure una parentesi in attesa del ritorno in patria. Cos’abbia rappresentato questa circostanza è quasi inutile dirlo.
Il musicologo Antoine-Élisée Cherbuliez, interrogandosi nel 1932 (in Die Schweiz in der deutschen Musikgeschichte) sul problema generale dell’interscambio musicale tra la Svizzera e i paesi vicini, stilò una specie di bilancio commerciale che dava come risultato 75 nomi di musicisti esportati contro 200 importati. Probabilmente la dipendenza svizzera dall’estero in campo musicale è superiore a quella verificabile in altre discipline. Limitiamoci tuttavia ai rifugiati, cioè a coloro che in seguito rientrarono nella loro patria, per stabilire non solo ciò che essi diedero alla Svizzera ma anche ciò che ne ricavarono ed in seguito trasferirono altrove. È un aspetto poco considerato, anche perché non si tratta di risultati vistosi, bensì di aspetti da cogliere tra le righe di un discorso globale.
Zurigo nel 1863, cinque anni dopo la fine del soggiorno di Richard Wagner
Il caso più tipico è quello rappresentato da Richard Wagner che soggiornò stabilmente a Zurigo tra il 1849 e il 1858. Le date dicono tutto. Nei precedenti anni di Dresda, dove la sua fama si era affermata con Il vascello fantasma, egli si era orientato verso ideali libertari. Il ’48 lo vide pronunciare un discorso sospetto dal titolo “Come conciliare le tendenze repubblicane con la libertà”; ciò fu sufficiente a procurargli un mandato d’arresto, benché non avesse partecipato direttamente alla sollevazione armata. Cosa guadagnò Zurigo dal musicista in fuga lo sappiamo. Egli diresse a più riprese numerose rappresentazioni all’Opernhaus, fu presente nei circoli letterari borghesi dove declamava i versi dell’Anello dei Nibelunghi che andava componendo, così come le pagine di Opera e dramma, cioè la sua teoria del Gesamtkunstwerk allora ancora lontana dal realizzarsi. Si legò a famiglie importanti quali i Wesendonck, animando la vita cittadina con altri intellettuali fuorusciti.
Cosa gli diede Zurigo? Apparentemente poco, anche se un suo scritto del 1851 (“Ein Theater in Zürich”) sulla base della conoscenza dell’intensa attività corale locale e degli esiti epici del modello di teatro patriottico (il Festspiel) propugnava la soppressione del teatro tradizionale, residuo della concezione cortigiana che non ha più senso nella logica dell’assetto repubblicano dello stato. In quel teatro di massa era quindi colta la premessa della sua opera d’arte totale.
Zurigo, Villa Wesendonck
A dire il vero la Svizzera è presente nell’opera di Wagner più come natura che come cultura. Lo rivelano le pagine della sua autobiografia che ci descrivono le lunghe camminate nella Svizzera centrale e addirittura la pratica dello sci, come mezzo di vagabondaggio nell’affascinante paesaggio vergine. Lo attirava in particolare la montagna scoscesa, per cui con grande coraggio affrontò escursioni in alta quota, sui ghiacciai, ecc., attraversando nei due sensi le Alpi. Gustose sono le sue descrizioni dell’arrosto di marmotta in Val Formazza, del caldo insopportabile e dei bagni nel Lago di Lugano, del “lurido mobilio” che addobbava la camera ricavata nello stesso edificio che ospitava il governo cantonale e via dicendo.
Svizzera, Paesaggio alpino
Il paesaggio alpino, che già intravvedeva da lontano a Zurigo, gli si rivelò dunque nella sua fisica dimensione e nel suo mistero, di rapporti che modificavano la normale percezione della realtà. Non è fuori luogo quindi riportare a questa esperienza non tanto la concezione stessa della Tetralogia, nella sua grandiosità, quanto la dilatazione temporale dello sviluppo drammatico e sicuramente le atmosfere programmaticamente derivate dallo sconvolgente preludio de L’oro del Reno, non a caso iniziato a Zurigo. Il mi bemolle tenuto in pianissimo vi attraversa infatti lo spazio acustico come la linea dell’orizzonte che si apre davanti all’occhio d’aquila che plana sulle cime dei monti, sul quale si staglia la figurazione basata sulle note fondamentali dell’accordo in cui si alternano otto corni.
R. Wagner, Rheingold, Preludio atto I.
Nella sua autobiografia Wagner non fa cenno del corno delle alpi, che tuttavia deve aver incontrato nelle sue peregrinazioni. Non è possibile tuttavia non ammetterne l’allusione davanti a una soluzione musicale tutta protesa a tracciare i termini di uno spazio sconfinato sboccante sul canto di Woglinde (“Weia! Waga!”) che marca l’inizio dell’azione mitica che, nell’apparente slancio vocale da jodel, blocca ancora estatico l’orecchio nell’evocazione del paesaggio alpino. Il Reno, nervatura del grande affresco, è inteso da Wagner come referente di brumose saghe nordiche, si sa; ma sappiamo anche che nasce sulle Alpi svizzere in una natura meno mitica e meno contaminata da ideologiche interpretazioni. Di ciò, nel fluente discorso wagneriano, rimase certamente più di un barlume.