• OFFICINA LETTERARIA
  • 8 Maggio 2017

    Fellini, il cinema e Roma

      Gabriele Anaclerio

    “Roma è una città orizzontale, di acqua e di terra, sdraiata, ed è quindi la piattaforma ideale per dei voli fantastici.”“Perché anche girando, il film ti sfugge. Non è un film che tu fai, ma tanti film, un pezzetto per volta”

     

    Roma di Federico Fellini (1972) può essere definito un film “ipertestuale”, una galassia di fantasticherie cinematografiche. Il mondo scenografico dell’Urbe, in gran parte ricostruita negli studi di Cinecittà, è l’oggetto dello sguardo della macchina da presa che fabbrica un’avventura visiva mobile e ipertrofica, disarticolata in una serie di numeri eterogenei che ricorda l’avanspettacolo.

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    L’opera felliniana si compone di questi frammenti, microstorie che in un intrigante “cadavre exquis” distruggono Roma nell’impossibilità di costruirla in un ritratto unitario o almeno coerente.

    I mille frammenti raccontati si condensano in una struttura narrativa in macrosequenze, all’insegna di un tempo cristallizzato e assorbito nello spazio teatrale e materico delle scenografie. Si crea così una paradossale “poesia di décors”, monumentale e transitoria: il film si presenta come un’architettura magmatica di istanti, segno di un tempo che fugge. Le visioni della città hanno la stessa consistenza effimera del tempo dei fotogrammi nella proiezione e della pellicola che deperisce. E si tratta della Città Eterna…

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    La Roma Felliniana è un soggetto insaisissable, impossibile da cogliere in una visione d’insieme, un oggetto immaginario la cui rappresentazione sempre rischiosa è affidata alla mise en scène. Come ha scritto Alberto Moravia sull’“Espresso”, si tratta di una visione esotica, laddove l’esotismo corrisponderebbe alla “localizzazione storico-sensuale della visione del mondo di Fellini nella cosiddetta città eterna”.

    E allora l’intera struttura (?) narrativa del film si situa sul piano della mancanza, dell’inafferrabile, in una molteplicità di figure di stile che rimandano alla persistenza di un vuoto centrale, di un senso che si dà come fugace, nel movimento incessante che accumula scenografie, voci vaganti sulla superficie dello schermo, identità fluttuanti di personaggi, frammenti di memoria e di Storia impossibili da incastrare. Tutto si sottrae nel momento in cui viene mostrato, o in cui viene detto, cosicché sia l’inquadratura sia la voce di narrazione che punteggia il film non appaiono altro che principi strutturali da distruggere nel disarticolato gioco della memoria che conduce costantemente e volontariamente alla deriva l’opera felliniana.

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    Roma è dunque l’oggetto di un’operazione memoriale che attraversa diverse fasi, corrispondenti alla struttura per macrosequenze del film.
    Si parte dall’infanzia riminese del protagonista (personaggio autobiografico privo di una vera psicologia, nutrito dagli episodi che compongono la sua vicenda nel corso del film), con l’immagine stereotipata dell’ideologia fascista che semplifica e strumentalizza la storia e il simbolo della città, scomposti in luoghi comuni privi di profondità assecondati dalle lezioni macchiettistiche del professore devoto all’alea iacta est, dalle censure clericali o dalle rappresentazioni cinematografiche (e teatrali) in cui l’adesione acritica del popolo fascista si specchia nelle lacrime facili del pubblico dinanzi ai peplum melodrammatici del periodo. Roma pretestuale, luogo mitico di un’ideologia di cartapesta, eppure luogo simbolico di un orizzonte destinato… e il treno internazionale che misteriosamente appare nella provincia addormentata, con destinazione Roma al termine della lunga sequenza dell’infanzia è il trait d’union al macroepisodio successivo, inaugurato dall’arrivo in treno del giovane provinciale (interpretato dal texano Peter Gonzales) alla Stazione Termini, alla vigilia della guerra.

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    Sennonché il marchio dell’irrealtà è diventato indelebile, e Roma, la Roma vissuta, non sarà altro, per il protagonista e per l’occhio della cinepresa, che una suite di apparizioni, di visioni archetipiche, di corpi. I corpi delle basiliche e i corpi da trattoria, i corpi delle divise ecclesiastiche e quelli delle matrone, e delle prostitute, in un vortice di pieni e di vuoti, di sudori e di rovine. Tutto interessa allo stesso modo a un occhio apparentemente non focalizzato che registra solo il movimento e confessa il proprio disorientamento.
    Roma come gigantesco bloc-notes finito nel buco nero di un tempo paradossalmente soggettivo, misurato dallo scorrere dei corpi, mentre il corpo del protagonista è ridotto a puro sguardo, anche quando frequenta il bordello. Roma come emozione spudorata agli occhi del forestiero.

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    Poco cambia dal ricordo alla pseudo-inchiesta “attuale” – siamo all’inizio degli anni Settanta- sul Grande Raccordo Anulare (ricostruito in studio), con il corpo del Maestro che si materializza a sua volta, insieme ai corpi della sua cinepresa e della gru. Roma continua a sfuggire all’inquadratura, rivelandosi sempre di più come gigantesco set, sempre eccentrico, incommensurabile punto di fuga. Si sviluppa qui un’autentica sinfonia del traffico, una grande metafora del vedere felliniano, con la sua galassia di quadri isolati, nitidi nella loro autonomia semantica, rivelazioni e barlumi del basso impero di una società in disgregazione. Hippies e prelati, manifestanti e tifosi di calcio, tutta la società civile è chiusa in questo ingorgo di forme nel quale è invischiata la stessa troupe con i suoi macchinari, quasi un’ammissione dell’incapacità di discernimento di un tessuto che si vuole mostrare nella sua deformazione morfologica, come una manierista allegoria della modernità.

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    Eppure la forza attrattiva (o regressiva) della memoria riemerge nuovamente, nel cuore di Villa Borghese. Quasi per sfuggire alle richieste di una denuncia sociale e civile dei mali che affliggevano la città in quell’inizio di anni Settanta, il regista-personaggio si abbandona alla rievocazione dei numeri di avanspettacolo che si svolgevano nel Teatrino della Barafonda. Di nuovo, la realtà e il trompe l’oeil si confondono, il teatrino con suoi numeri dozzinali e spumeggianti è il grande rifugio dalla fase terminale, potenzialmente apocalittica della Guerra, con il bombardamento di Roma che minaccia di spegnere per sempre il vitalistico varietà della città eterna. Ma anche il rifugio anti-bombe può essere l’inizio di nuove storie, e il giovane giornalista-alter ego incontra una sorta di Anita Ekberg che lo porta con sé. E il cinema ancora una volta nasce dalla contaminazione con la vita vissuta (o ricordata?).

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    La Roma Felliniana è dunque una dimensione temporale giocata su un immaginario labile e in questo assomiglia al cinema, al fragile supporto pellicolare. E assomiglia alla memoria, ai suoi meccanismi di oblio e di rimozione. Di tutto questo sembra emblematica la celebre sequenza degli scavi metropolitani, dove i carrelli della macchina da presa disegnano una geografia sotterranea “corrispondente” ai diversi quartieri della città, elaborando una sorta di ventre oscuro polveroso e incomprensibile, dove da anni si combatte il duello tra modernità (sempre procrastinata…) e apparizione di vestigia del passato.
    In tal modo Fellini sembra riconoscere l’anima intima della città, il suo carattere regressivo e inconsapevole. Se infatti il progresso non può non fare i conti con la presenza fisica del passato archeologico, al tempo stesso questo passato sembra consistere nel suo destino di rimozione: come gli affreschi della vecchia casa romana che si polverizzano in seguito all’irruzione degli operai che ne distruggono i muri protettivi. Roma sembra insomma avviarsi verso il futuro in una sorta di semi-incoscienza: il passato illustre è un monolite dalle forme indistinte che abita l’inconscio della città e dei suoi abitanti. Il futuro non può essere altro che la realizzazione di tale perdita, molto più di un progresso tecnologico da metropoli mondiale.

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    In una città così ancorata al passato, gli hippies, che con i loro rivoluzionari stili di vita segnavano gli anni post-sessantottini, appaiono quasi dei marziani, un elemento di spaesamento per la riconoscibilità della Roma viziosa amante dei bordelli e dell’amore carnale. E qui la possessione felliniana dell’immagine della città è quasi trasparente (come lo sarà nella sequenza successiva “ecclesiastica”): il corpo pieno delle prostitute (a cui farà da contraltare il corpo vuoto degli abiti curiali) è l’orizzonte del piacere di una gioventù costretta dalla dittatura fascista nei limiti - angusti e illimitati al contempo - di un piacere totalmente affidato alla contemplazione e alla consumazione di forme abbondanti, quasi espressione di una fantasia vignettistica (non a caso…) che immagini per sé il massimo di orgasmo possibile.

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    E così nel passaggio dal bordello popolare, una sorta di campo di concentramento del sesso - di corpi all’asta - disinfettato alla fine della vendita all’incanto, alla casa d’alto bordo dove l’immagine del piacere proibito è tutta in un ascensore patinato che trasporta le signorine verso le loro camere di fronte allo sguardo quasi incredulo del giovane alias Fellini, è il sovrappiù di seni debordanti che attira le pulsioni scopiche della macchina da presa e dello spettatore catturato.

    Roma come sinfonia di corpi, dunque. E la penultima sequenza, quella che anticipa l’epilogo, è una summa di questa visione felliniana, con la sua sfilata di moda ecclesiastica, paradossale apertura della Chiesa cattolica al mondo, o alla mondanità. Nel palazzo di una dama dell’aristocrazia vaticana, sotto gli occhi di un illustre Cardinale e delle più alte cariche della gerarchia, si immagina un portentoso défilé che mette in luce una sorta di corporeità del sacro, quasi una sensualità dell’abito religioso, una mascherata di corpi dentro paramenti che sfocia nella sfilata autonoma e automatica di questi ultimi, in una estremizzazione dell’immaginario felliniano che cerca di svincolarsi da ogni verosimiglianza narrativa.

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    Sennonché la messa in scena del regista riminese è sempre una messa in scena di décors e di costumi, e così il sogno non si dà mai come completamente immateriale, emanazione di pure intensità ritmiche, di forme e luci dotate di un’inconsistenza puramente cinematografica. L’emozione felliniana è sempre una costruzione, un artefatto impeccabile che materializza l’immaginazione del suo creatore, e questo è forse anche il suo limite, il limite di una comunicazione emotiva “bloccata” tra l’artista e il suo spettatore. Impossibile è sognare un sogno troppo definito di un altro. La teatralità felliniana è una visione del mondo, in questo caso la visione di Roma, e per questo uno straordinario prodotto finito e rifinito che non si può riaprire (mirabile eccezione 8 ½, non a caso il film che più di tutti si interroga sulla stessa operazione creativa del cineasta). Un affresco che non può scomparire.

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    L’epilogo notturno, con la Festa de’ Noantri, gli hippies sgomberati, le interviste a Gore Vidal e Anna Magnani (ve ne erano anche altre ad Alberto Sordi e Marcello Mastroianni, misteriosamente tagliate nella versione definitiva), è una ricapitolazione per frammenti di tutta l’affabulazione che costituisce l’opera, dell’impossibilità di fornire un’immagine unitaria della città, luogo principe della costruzione di illusioni (la Chiesa, il Governo, il Cinema…) nelle parole dello scrittore americano. Così Roma viene letteralmente distrutta da una spedizione di misteriosi centauri (riferimento a Cocteau?) che con le loro incursioni fulminee (spesso in soggettiva) e il rombo dei motori mettono a ferro e fuoco (esteticamente parlando) le piazze e i monumenti, e la loro pretesa di durata eterna. Perché Roma non si dissolve come un’esistenza buddista: anche quando perisce, si distrugge con il boato del suo traffico.

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