• Diario d'ascolto
  • 3 Maggio 2020

    AL CAPEZZALE DELL'OPERA CONTEMPORANEA

      Carlo Piccardi

    Della crisi del teatro musicale contemporaneo si parla da vari decenni ormai, da quando è venuta a mancare la spinta della tradizione e da quando anche questo settore della creatività musicale è stato inglobato nell’ambito dell’avanguardia e dei suoi progetti fondati su ipotesi anziché su verifiche. Periodicamente ci si raccoglie quindi intorno al suo capezzale per interrogarsi sul decorso della malattia.

     

    Quali sono le costanti dei vari atteggiamenti? Innanzitutto il presupposto rimane la sfiducia nelle convenzioni che per secoli hanno sorretto l’evoluzione operistica, cioè la funzione evocativa, didascalica, coloristica della musica e il relativo principio dell’espressione degli ‘affetti’. L’aspirazione rimane quella di un teatro antinarrativo, che nega la parola quindi, ma che nello stesso tempo ne ha bisogno poiché non esiste canto senza testo. Non si tratta quindi della “parola scenica” di verdiana memoria né della “parola-cartello” che ci riporta a Brecht, bensì della parola scelta prima del momento teatrale di cui farà parte, parola svincolata dalla storia: parola di poesia.

     SALOME
    Richard Strauss, Salomè

    È proprio il rapporto tra musica e parola a essere entrato in crisi, in quanto relazione ormai priva di basi concordate e gestita unilateralmente dal compositore. La crisi dell’opera moderna è infatti anche una crisi della librettistica, iniziata si può dire col passaggio alla cosiddetta “Literaturoper”, cioè all’impiego di un dramma letterario (tutt’al più accorciato) a mo’ di libretto, come sono stati Pelléas et MélisandeSalomè e Wozzek. È inevitabile che il fatto di trattarsi di testi nati non per essere posti direttamente in musica fa sì che la loro ‘musicalizzazione’ costituisca già di per sé un problema, che, anche se occasionalmente risolto, non è in grado di costituire una nuova solida tradizione. Senza tradizione anche l’appello allo scrittore a convertirsi in librettista non è certo la soluzione ideale.

    BERIO
    Luciano Berio

    Lo possiamo dedurre dalla collaborazione per certi versi esemplare tra Luciano Berio e Italo Calvino (La vera storia, 1982; Il re in ascolto, 1984) come ci è stata testimoniata dal compositore (“Italo era intimidito dalla musica”), da cui evinciamo non solo la convenzionale subordinazione dell’autore del testo al compositore, ma la sua completa alienazione, nel senso che il librettista di un tempo era chiamato a preformare il testo in funzione della musica mentre oggi lo scrittore fornisce un materiale scarsamente finalizzato, del cui risultato musicale sarà il primo a sorprendersi. 

     MOSE ARONNE
    Arnold Schoenberg, Moses und Aaron

    All’origine di tale situazione sta la posizione di Arnold Schönberg che esaltava una “musica assoluta” non più serva del “testo poetico” e che evitasse “la via traversa” del “linguaggio della coscienza” a favore del “linguaggio dell’inconscio”. Schönberg cioè si pose alla ricerca di una coerenza al di là della coerenza dell’azione drammatica, trovandola nella dodecafonia. Per quanto concerne Moses und Aaron il suo vanto fu quello di essere riuscito a sostenerlo interamente su un’unica e sola serie dodecafonica. Ma ciò significava trasporre nel teatro procedimenti nati nell’ambito della musica strumentale, passando al di sopra non tanto dei generi, quanto delle differenze di logica. Probabilmente il problema sta tutto qui.

     PAVAROTTI
    Luciano Pavarotti, Radames in Aida

    Quando un compositore quale Franco Donatoni spiega la natura della propria esperienza teatrale (“Il cantante non è persona scenica, ma strumento vocale”) ne individua l’esatto fondamento, ma non è in grado di darcene la ragione d’essere che (nonostante gli innumerevoli tentativi) sappiamo non esistere al di là della negazione della “persona scenica”.

    Oppure il problema sorge semplicemente dal fatto che esistono i teatri d’opera come istituzioni, come luoghi deputati di trasmissione della musica. La creazione musicale-teatrale non sarebbe allora che l’adeguamento a un dovere sociale della musica, cioè alla convenzione. Come dire: la convenzione scacciata dalla porta rientra dalla finestra. Non sarebbe la prima volta che una manifestazione d’arte moderna si regge sul paradosso.