• Diario d'ascolto
  • 8 Febbraio 2024

    BUSSOTTI (GENIO ESTROVERSO) PAR LUI-MÊME

      Carlo Piccardi

    «Bussotti par lui-même» (titolo che diedi a un mio programma concepito nel 1975 per la Televisione della Svizzera italiana con la partecipazione di Elise Ross, Giancarlo Cardini, Italo Gomez, Rocco e romano Amidei): l’autoritratto è sembrato l’unica possibilità per descrivere Sylvano Bussotti nella molteplicità dei suoi ruoli che, attraverso la musica, l’hanno portato alla pittura, al teatro, alla danza in una prospettiva che imprevedibilmente riscatta in tempi difficili quali i nostri, l’ideale aristocratico e polivalente dell’artista rinascimentale.

    L’autoritratto era anche la sola possibilità per fermare in un’immagine riassuntiva le mille sfaccettature di un’esperienza artistica che, esaltando le occasioni più improponibili (la favola, la danza, il teatro da camera, il melologo, ecc.), aperte alla più sfrenata fantasia e all’intuizione più inconfessabile, non si lasciava ordinare in indagine sistematica. Nel momento stesso in cui il musicista si sottopone a intervista, il frammento dell’opera sua chiamato in causa rinasce sotto nuove spoglie, tessendo nuovi rapporti dove suono, immagine e parola, perfino nello spazio condizionato del documentario televisivo, ritrovano l’intuizione di un ordine capace di ricostituirsi attraverso diverse apparenze al di là dell’unicità usualmente riconosciuta a ogni opera d’arte.

    Da vari decenni ormai la musica contemporanea si è liberata dall’arido nozionismo dodecafonico che aveva visto il prevalere della componente teoretica sul fatto comunicativo. Sylvano Bussotti può vantarsi di aver sostenuto un ruolo di decisa sconfessione della composizione strutturalmente predeterminata, fin dalla sua apparizione nel 1958 ai famosi corsi estivi di Darmstadt, assurti durante gli anni Cinquanta a cittadella della Nuova Musica. Da allora in poi il compositore italiano si fece strada in campo internazionale legittimando la necessità di recuperare all’arte dapprima il principio stimolante del piacere («Passion selon Sade») e in seguito la dimensione fantastica («Bergkristall»), abbattendo ogni scrupolo di falso accademismo e ogni ostacolo che impedisse di riconoscere stretti rapporti di dipendenza con i precedenti storici, non solo con quelli ammissibili ma anche con quelli improponibili (non solo Mahler ma anche Puccini).

    BUSSOTTI DISEGNO

    Da quando la sua esperienza ha cessato di confrontarsi deliberatamente alle fasi storiche dell’avanguardia (concezione seriale, alea, ecc.) per procedere lungo una linea chiamata a esaurire la propria dialettica all’interno della sfera personale, per non dire intima (esibita attraverso atteggiamenti tanto vistosi da sconcertare non poco gli osservatori critici abituati ad affrontare i problemi della musica contemporanea attraverso verifiche sui risultati al di là di ogni accento individualistico), è emerso inevitabilmente come termine di discorso il rischio dell’involuzione. In verità il caso Bussotti mette in imbarazzo non solo prendendo atto di questo orientamento, ma soprattutto nell’assenza di ritegno ad incentrare il discorso intorno ai presupposti personali, autobiografici addirittura, della propria esperienza.

    La prospettiva di un’involuzione si scontra allora con un tipo di giudizio incapace di mettere in discussione l’esito artistico a livello dei significati individuali. In effetti, a chi affidasse la conoscenza di Bussotti non direttamente alla sua musica, bensì ai luoghi comuni impiegati dalla critica per definirne la natura e la provocazione, egli apparirebbe un D’Annunzio redivivo con diramazioni morbose, che nei tratti scopertamente confidenziali chiamerebbero in causa addirittura un Ciaikovski o qualche altro personaggio irrimediabilmente «schedato» dalle operazioni sopravvissute nella critica sotto forma di osservanza moralistica. Il parallelo tiene in verità fino a un certo punto, poiché, se di preziosismo decadente, di compiacimento sensuale o di esplorazione morbosa della sfera intima si può parlare, ciò va inquadrato in un contesto estremamente raffinato di mediazioni culturali che, come principio, escludono il passivo concedersi a un modo d’essere spontaneo. Il fatto spiega altresì la ragione che giustifica la seria presa in considerazione dell’esperienza bussottiana la quale, nei suoi ricorsi ad atteggiamenti estroversi e a gusti discutibili d’antiquariato, ha introdotto nella musica contemporanea, a un livello inconsueto di profondità, la coscienza della crisi. La crisi appunto vissuta come ebbrezza e non come angoscia, dove il fatto di saper guardare in faccia alla decadenza ritrova energia positiva nel risorto principio del piacere, al quale lo stato di terra bruciata raggiunto dalla musica attraverso le innumerevoli operazioni «decompositive» del dopoguerra offre spazio sconfinato di conquista.