• OFFICINA LETTERARIA
  • 27 Novembre 2023

    L'avventura impressionista

      Alberto Panza

    Uno dei fenomeni che più colpiscono l’osservatore delle vicende artistiche della contemporaneità, è la progressiva rarefazione, fin quasi alla scomparsa, del mondo naturale e del paesaggio dall’orizzonte espressivo del Novecento. Altrettanto spiazzante può essere la riapparizione di elementi naturali nelle istallazioni contemporanee, oppure nelle pratiche recenti, legate a quella che è stata variamente definita come Land Art, Art in Nature, Earth Art, in cui il mondo naturale appare disabitato, remoto, quasi post-umano.

    La carica provocatoria di queste formulazioni appare evidente se consideriamo che un artista dei nostri anni, Walter De Maria, operante appunto nell’ambito della Land Art, veicola l’idea che le catastrofi naturali siano la forma più elevata di arte che si possa concepire (Milani, 2001), tutti segni evidenti del senso di disarmonia conseguente ad una ‘alleanza’ perduta.

    Lo ‘spaesamento’ è da molti considerato come un fenomeno tipico del sentire dell’uomo contemporaneo, un senso di distonia ambientale originato da quello che György Lukács aveva definito il disincanto del mondo, un mondo da cui tutti gli dèi sono fuggiti. Non si tratta solo di una crisi delle credenze religiose, quanto della metafora di un più generale processo mutativo che ha alterato il senso di una solidale appartenenza. Tale alterazione si esprime nella riduzione del mondo a territorio - da sfruttare più o meno selvaggiamente – o nella riduzione della natura a mero ‘sfondo’, ad oggetto di consumo, così come appare nei depliants o nelle proposte ‘avventurose’ del circuito mercantile vacanziero.

    Tutto ciò sembra avverare la sinistra sentenza di Giacomo Leopardi che, in un’annotazione del 19 marzo 1821, aveva scritto: “Noi siamo del tutto alienati dalla natura e quindi infelicissimi”.

    Il paesaggio, come scriveva Ernst Cassirer (1944) nel suo Essay on Man, non è “il regno delle cose esistenti, ma quello delle forme viventi” e in questo si differenzia dall’aspetto più strettamente - e a volte banalmente - documentaristico del vedutismo. L’esperienza estetica del paesaggio, a differenza della rappresentazione grafica del territorio, implica la partecipazione alla vita del mondo, che si dà come atto senso-percettivo ed emotivo insieme. In questo senso Georg Simmel (1912-13) parlava di una Stimmung del paesaggio, per indicare una modalità di percezione empatica in cui non è possibile separare physis e psyche.

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    Con alterne vicende, la Stimmung paesaggistica è stata una componente essenziale della figurazione artistica, almeno a partire dall’antichità classica. Nella sua accezione più complessa, il paesaggio raffigura ambienti definiti, ma fa riferimento ad una trama molto più ampia (infinita connessione delle cose, ininterrotta nascita e distruzione delle forme, unità fluttuante dell’accadere) solo parzialmente intuibile.

    Come genere artistico, il paesaggio aveva toccato il suo apice agli albori della Romantik, in particolare con Edmund Burke e la sua Philosophical Inquiry del 1757 su bello e sublime, divenuta quindi uno dei caposaldi della riflessione kantiana. L’elemento fondamentale sta nel fatto che i termini di bello, pittoresco e sublime indicavano non solo, o non tanto, una particolare tipologia di luoghi, quanto esplicitavano uno stato d’animo del soggetto percipiente. Il dialogo rappresentativo con la natura non si riduce quindi ad una mera topografia, ma implica l’intuizione di una trama di consonanze e dissonanze attraverso le quali si esprime più propriamente la complessità e la contraddittorietà dell’Essere-nel-Mondo, il Dasein heideggeriano, dato che nella contemplazione del paesaggio dobbiamo pensare sia a una bellezza che acquieta, sia a una bellezza che inquieta.

    Lo scrittore austriaco Ugo von Hofmannsthal nel 1922 raccolse alcuni pensieri in un testo intitolato Il libro degli amici, dedicato a coloro che erano stati suoi compagni di viaggio intellettuale e affettivo. L’aforisma che apre la raccolta è questo: “L’uomo scopre nel mondo solo quello che ha già dentro di sé, ma ha bisogno del mondo per scoprire quello che ha dentro di sé”. Tra interno ed esterno non c’è una relazione lineare ma circolare: ciascuno proietta nell’ambiente aspetti dell’organizzazione del proprio spazio interiore (personaggi, oggetti, relazioni tra oggetti, scenari) ma questi modelli hanno preso forma proprio attraverso il contatto con l’ambiente. Chi determina chi? È impossibile rispondere. Questa paradossale co-determinazione - che mette in crisi gli adepti della causalità lineare e del pensiero geometrizzato - può essere esemplificata proprio dall’estetica del paesaggio e consiste essenzialmente nella coincidenza tra comprendere e sentirsi compresi nella natura. Tra le Lebensformen di cui parlava Cassirer possiamo dunque includere il soggetto osservante stesso, che può entrare in relazione con le sue coloriture emotive fondamentali, proprio attraverso la configurazione di un paesaggio. Potremmo allora dire che il paesaggio è la faccia visibile dell’invisibile, un’obiettivazione rappresentativa non solo delle misteriose forze che ci circondano, ma anche di quelle che ci abitano.

    Forse non è un caso che la più importante svolta artistica della modernità, paragonabile a quella che ebbe luogo nella pittura italiana e fiamminga nel Quattrocento, abbia avuto inizio, con l’impressionismo, proprio attraverso la pittura di paesaggio. Il primo passo fu segnato da Théodore Rousseau che, tra il disinteresse del pubblico e l’opposizione della critica ufficiale, si stabilì nel villaggio di Barbizon, nella foresta di Fontainbleau, ove lo raggiunsero diversi altri pittori. Ciò che accumunava questi personaggi era l’indifferenza alla didattica accademica del “paesaggio eroico” e l’assoluta dedizione alla natura, che si tradusse in una innovazione di grande portata: la pratica della pittura en plein air.

    Fino ad allora era consuetudine realizzare all’aperto, sur le motif, soltanto disegni o studi preliminari, mentre il quadro vero e proprio veniva realizzato, a memoria, nel chiuso dell’atelier. Questo procedimento comportava un alto coefficiente di intellettualizzazione nella resa: non si dipingeva quello che si vedeva, ma quello che si sapeva di dover vedere. La critica ufficiale e la giuria dei Salons, dominata dall’Academie des Beaux Arts, consideravano con una certa sufficienza questi esperimenti, ritenendoli una sorta di sottogenere bozzettistico. Il loro esempio fu invece fondamentale per una serie di giovani pittori che non si riconoscevano nella politica culturale dominante. Il dibattito sulla nuova pittura non aveva spazio - se non in negativo - all’interno delle istituzioni culturali, ma si svolgeva in quegli spazi non ufficiali che tuttavia costituivano uno degli elementi più affascinanti della vita parigina dell’epoca: animate discussioni si svolgevano nei caffè e nelle brasseries dove si riunivano i più audaci e combattivi tra poeti, giornalisti e pittori.

    Nel 1866 inizia a riunirsi, nelle sale del Caffè Guerbois, un gruppo costituito da Edouard Manet (1832-1883), Paul Cézanne (1839-1906), Edgard Degas (1834-1917), Claude Monet (1840-1926), Pierre-Auguste Renoir (1841-1919), e Camille Pissarro (1830-1903). Tra i più preparati e colti erano indubbiamente Manet e Degas, eleganti e raffinati. Monet non aveva un esteso curriculum di studi e non interveniva spesso ma ascoltava molto e confidava nella sua intuizione. Cézanne, invece, con le sue maniere burbere si divertiva a mettere in imbarazzo i colleghi più colti, accentuando il suo pesante accento provenzale. Il giovane Renoir era forse il più vivace e spensierato del gruppo, anche se come Monet attanagliato da grandi difficoltà economiche. La prima esposizione dei futuri impressionisti ebbe luogo nella galleria di Paul Durand-Ruel, mercante illuminato, che ebbe l’intelligenza e il merito di capire che si stava rivelando qualcosa di straordinario per il futuro della pittura, non solo di quella francese. L’esposizione comprendeva quadri di Delacroix, Daubigny, Corot, oltre a quelli di Manet, Monet, Pissarro, Renoir e si risolse in un clamoroso fiasco dal punto di vista finanziario. Durand-Ruel era impossibilitato ad aiutare oltre i nostri pittori, perché giunto sull’orlo del fallimento e del resto era preclusa la strada delle esposizioni ufficiali dell’Accademia di Belle Arti, chiamate Salons, perché i loro quadri non venivano accettati. Trovò allora spazio l’idea di Monet di organizzare un’esposizione indipendente, nello studio del fotografo Nadar. Oltre alle difficoltà organizzative, un ulteriore problema era costituito dalla denominazione con cui presentarla. Ricorda Renoir: “Anche se noi ci fossimo chiamati alcuni o certi pittori, i critici avrebbero sicuramente coniato il termine alcunisti o certisti”. Per evitare questo esito fu scelta la denominazione Societé anonyme des artistes, con la quale la mostra venne aperta il 15 aprile 1874. Dieci giorni più tardi, sul periodico Le Charivari il critico Louis Leroy scrisse un lunghissimo articolo in forma di dialogo, in cui immaginava di guidare un pittore nella visita alla mostra e di vederlo a poco a poco impazzire, sconvolto dalle opere esposte. Il sarcasmo di Leroy, come è noto, si esercitò a partire dal titolo assegnato in catalogo ad un quadro di Monet, “Impression, soleil levant”, che fornì lo spunto al critico per coniare la denominazione Exposition des impressionnistes, naturalmente proposta in senso dispregiativo, e come tale venne recepita dal pubblico. Ma appena quattro giorni dopo, Castagnary pubblicò su Le Siècle un pezzo dal titolo Exposition du Boulevard des Capucines, in cui adottava il termine con una accezione diversa: “Se li si vuole definire con una sola parola che ne compendi la ricerca, bisogna adottare il nuovo termine di impressionismo. Sono impressionisti nel senso che rendono non un paesaggio, ma la sensazione che un paesaggio produce”. Il termine non venne più dimenticato: la grande avventura era cominciata. Qualche volta l’utopia riesce a trasformarsi in realtà: e non è un caso che gli impressionisti dedicarono la loro prima mostra ad un grande utopista: Gustave Courbet.

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    E’ fin troppo facile stupirci oggi, dal nostro punto di vista, dell’incomprensione e dell’insensibilità della cultura ufficiale e del pubblico nei confronti delle prime esperienze del gruppo. Effettivamente il tipo di pittura introdotto dagli impressionisti era inevitabilmente destinato a originare perplessità, per le novità della tecnica pittorica ma soprattutto per l’affermazione di un nuovo principio di visione, un nuovo rapporto tra soggetto rappresentante e oggetto rappresentato.

    Nella sua Ipotesi di descrizione di un paesaggio, Italo Calvino (1945-85) ha affermato: “Ogni volta che ho provato a descrivere un paesaggio, il metodo della descrizione diventava altrettanto importante che il paesaggio descritto”. Il metodo della descrizione non può quindi essere codificato una volta per tutte, ma nasce dalle infinite possibilità dell’incontro con lo spazio naturale. Un concetto non dissimile venne espresso da Claude Monet in una lettera a Gustave Geffroy del 1912: “Io so soltanto che faccio quello che posso per rendere ciò che provo di fronte alla natura e che sovente, per arrivare a rendere quello che sento, dimentico totalmente le regole più elementari della pittura, se pure ce ne sono”. In questo senso la pratica del plein air ha avuto l’effetto di un risveglio, che ha portato a scoprire come il modo “naturale” di vedere fosse infinitamente più complesso di quello codificato nelle convenzioni accademiche.

    Il paesaggio tradizionale prescriveva il massimo grado di uniformità tonale e coloristica e le forme dovevano essere disposte in modo tale da conferire alla scena coerenza e dignità: il tutto produceva effetti gradevoli ma altamente statici. Si trattava di una natura “pensata”, filtrata attraverso i modelli del paesaggismo classico, come quelli di Nicolas Poussin o Claude Lorrain. Rispetto a questa visione pacificante ma idealizzata, Pissarro scriveva al figlio Georges, usando una metafora musicale: “L’armonia nasce solo dai contrasti, altrimenti quello che ottieni è l’unisono, una melodia composta da una sola nota”. Gli impressionisti introducono il senso di una natura “vissuta”: l’idea è quella di una visione dinamica, di una interdipendenza mobile, in una configurazione in cui ciascuna parte dialoga con tutte le altre.

    Una delle fondamentali innovazioni tecniche su cui si confrontarono gli impressionisti riguardava il trattamento delle ombre: la tradizione prescriveva che per realizzare le ombre si dovesse mischiare del nero o del bitume al colore fondamentale. Con questo sistema veniva resa l’ombra e, nello stesso tempo, suggerita la tridimensionalità attraverso il contrasto tra parti chiare e parti scure di un oggetto. Gli impressionisti finiranno per rinunciare a questa tecnica: dal momento che il colore è dappertutto - in luce come in ombra - la differenza veniva espressa attraverso lo scarto tra colori puri. L’eliminazione del nero dalla tavolozza consentì agli impressionisti di realizzare quadri di un’intensità luminosa folgorante. Gli impressionisti intendevano dipingere tutto ciò che è mosso, leggero, trasparente. Dipingere quanto si modifica nell’impatto che sulla natura, sulle cose e sulle persone produce il tempo. Dipingere la luce, l’aria, l’acqua, l’ombra, la neve, i fiori, gli alberi mossi dal vento e il vento stesso e dipingere l’uomo e il suo coinvolgimento entro la natura. Per raggiungere questi risultati, gli impressionisti si dedicarono a due soggetti fondamentali: i paesaggi nevosi e i réflets dans l’eau.

    Ecco quanto suggeriva in proposito Renoir a un giovane che gli aveva mostrato un paesaggio invernale, in cui aveva usato molto bianco: “Il bianco in natura non esiste. Deve riconoscere che sopra la neve c’è un cielo; il cielo è azzurro e sulla neve questo azzurro si deve vedere. Al mattino nel cielo c’è del verde e del giallo. Anche questi colori si devono vedere sulla neve se, come dice, ha dipinto il quadro al mattino. Se lo avesse dipinto di sera si sarebbe dovuto vedere del rosso e del giallo. E guardi le ombre. Sono troppo nere. Un albero, per esempio, ha colore sia dal lato illuminato dal sole che dal lato in ombra (…). Le ombre non sono nere, nessuna ombra è nera, ha sempre un colore. La natura conosce solo colori”.

    Altro argomento privilegiato, nato dalle discussioni nel Café Guerbois, è quello dei riflessi nell’acqua: l’osservazione della maniera in cui i colori si rifrangono sulla superficie è la via tramite la quale gli impressionisti arrivarono alla scomposizione dei colori, nel riverbero e nei riflessi resi attraverso una pennellata breve e vibrante; compresero cioè che i colori non vengono percepiti come fusi, ma come separati e vengono riunificati solo nella nostra visione “mentale”.

    Al di là dei singoli soggetti, questi nuovi principi si estesero alla rappresentazione nel suo insieme. Privilegiare gli aspetti percettivi ed emotivi sulle nozioni e le regole implica ammettere la verità delle apparenze, un nuovo realismo che comprende l’effimero, il fugace, il contingente come elementi costitutivi del nostro rapporto con il mondo e con la vita. Edouard Manet, per esercitare la sua allieva Eva Gonzales, le metteva di fronte una tovaglia candida su cui disponeva dell’uva, una fetta di salmone su un piatto d’argento, un coltello e suggeriva: “Faccia tutto questo in fretta! Non stia tanto a guardare lo sfondo. Pensi soprattutto ai colori. Quando guarda questa natura morta e soprattutto quando pensa a rappresentarla come la sente, cioè in modo da provocare nel pubblico la stessa impressione che provoca in lei, le righe della tappezzeria non le vede. Non è così? E quando contempla tutto l’insieme non si sogna di contare le scaglie del salmone, vero? Le deve vedere come piccole perle d’argento contro il colore grigio e rosa. E l’uva! Vuol contare gli acini? Certo che no. Quello che colpisce è il tono d’ambra chiara e la polvere che modella le forme e insieme le addolcisce. E’ la luminosità della tovaglia, sono i punti non direttamente toccati dalla luce”. Si può dire dunque, usando una metafora, che l’impressionismo abbia introdotto una sorta di “principio di relatività” in pittura. Non solo il colore di un oggetto dipende da tutti i colori che compongono il campo percettivo ma anche la forma è influenzata dagli oggetti circostanti. In “Nature morte aux oignons” (Cézanne 1896-98), con una straordinaria sottigliezza di impaginazione il bordo del bicchiere viene ribaltato rispetto all’ovale del liquido, il bordo destro del piatto e l’angolo del tavolo si sollevano per l’influenza visiva del panno gettato sul piano, anticipando la visione multiprospettica del cubismo.

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    Nell’arco di poco più di un ventennio - partendo dal Salon des Refusés del 1863 - si consuma gran parte dell’avventura impressionista, la prefigurazione, in senso letterale, di una nuova concezione della realtà, fatta non di una serie di organismi e ambienti distinti, ma come espressione di una sorta di immanenza, una rete di organico e inorganico, diverse forme del vivente, non separate da una gerarchia ma collegate e interdipendenti. Proprio sulla base della influenza reciproca di tutti gli elementi della composizione, si è parlato, a proposito dell’impressionismo, di una visione ecologica (Eisenman, 2010). Il termine stesso di ecologia appare per la prima volta nell’opera di Ernst Haeckel, Generelle Morphologie, tradotta in francese nel 1874, l’anno della prima mostra impressionista. Naturalmente non si tratta di una derivazione diretta, ma di un processo in corso, una profonda modificazione del modo di sentire la natura.

    In Francia tale nuova sensibilità venne diffusa grazie all’azione de La Nature, la rivista scientifica più moderna e progressista della Terza Repubblica e una delle più innovative nel proporre un modello di divulgazione intelligente. Il periodico, che iniziò le sue pubblicazioni nel 1873, promosse una nozione alternativa della natura come mondo fisico nella sua interezza, diversa da quella di mondo separato dall’umano e immutabile. In questo senso trova una precisa rispondenza con la sensibilità impressionista, che ribaltò l’ideale di una natura come oggetto di contemplazione loin du commerce de l’homme, sostenuta da Charles-Jacques-François Lecarpentier, uno dei più famosi teorici francesi della pitturadi paesaggio. Il paesaggismo classico implicaval’esclusione di tutti i riferimenti alla modernità, in unacelebrazione degli aspetti selvaggi, dei sentieri remoti edegli angoli dimenticati, in cui, come scriveva il paesaggista Frédéric Henriet (Le paysagiste aux champs, Paris, 1876), “la vostraispirazione non rischierà di spezzarsi le ali contro la ciminiera della fabbrica, il palo del telegrafo o il fumaiolo della locomotiva”. Gli impressionisti, che introducono il tempo nello spazio, realizzano invece una serie di paesaggi urbani, in cui lo spazio cittadino è un luogo animato e vivace ma non oppressivo. Nei decenni successivi, con le avanguardie storiche del Novecento, faranno la loro apparizione immagini ben diverse: la città convulsa e febbrile del futurismo, la città apocalittica espressionista o il suo contraltare, la città desertificata e melanconica della pittura metafisica, ma questa è un’altra storia.

    Gli straordinari paesaggi urbani dell’impressionismo testimoniano una possibilità di abitare lo spazio condiviso di cui serbiamo una nostalgia intensa, come di una cosa perduta ma non ancora dimenticata e, forse, indimenticabile.

     

    Bibliografia

    Calvino I. 1995. Ipotesi di descrizione di un paesaggio. In Saggi, v.II. Mondadori, Milano.

    Cassirer E. 1968. Saggio sull’uomo. Armando, Roma.

    Eisenman S.F. 2010. Impressionismo ed ecologia. In Id., Da Corot a Monet, la sinfonia della natura. Skira, Milano.

    Hofmannsthal U. 1996. Il libro degli amici. Adelphi, Milano.

    Milani R. 2001. L’arte del paesaggio. Il Mulino, Bologna.

    Simmel G. 1989. Il volto e il ritratto. Saggi sull’arte. Il Mulino, Bologna.