Vi sono artisti sui quali il luogo comune ha agito con prepotenza a volte fastidiosa, ma che dal luogo comune diventato popolare ricavano illuminazione innegabile. Nel centenario della nascita di Vincenzo Bellini fu ad esempio facile a Gabriele D’Annunzio individuare il tema su cui tessere l’ode celebrativa, ritrovando nella «semplice, nuda e sola... melodia che vince ogni parola» il denominatore di un’estetica di evidenza allarmante. Ma appunto, nonostante gli sforzi che si possono dispiegare alla ricerca di livelli di maggiore problematicità, il discorso sul maestro catanese rimane ancorato a quel fondamento. Fragile fondamento, si è sempre detto, tanto da rilevare l’insignificanza di Bellini come codificatore di una poetica valida al di là del caso specifico.
La storia della musica moderna è anche storia di costume, perciò i manuali non mancano di soffermarsi sui tafferugli scatenati dalle celebri prime esecuzioni di Schönberg, Stravinsky, Varèse, ecc. L’immagine «tellurica» del Sacre du Printemps, determinata dalle taglienti sonorità di una musica che per prima lasciava dietro di sé gli impasti timbrici vaporosi cari alla scuola francese d’inizio secolo, ci è stata senz’altro tramandata anche dall’evento della rappresentazione parigina del 29 maggio 1913 e dal tumulto di pubblico che ne sortì, immancabilmente citato per misurare le capacità provocatorie di una composizione considerata a giusto titolo uno spartiacque. Il discorso potrebbe anche essere generalizzato e, passando per il celebre passo della Terza sinfonia beethoveniana contestato dai primi ascoltatori, risalire almeno fino alle censure dell’Artusi alla Cruda Amarilli monteverdiana.
Se Luigi Boccherini fosse gloria tedesca anziché italiana, oggi avremmo a disposizione probabilmente una ponderosa sua opera omnia dalla quale farci un’idea dei contributi dati alla musica europea. Invece occorre accontentarsi di un catalogo delle opere e di sparse edizioni moderne che rispecchiano solo parzialmente quella che fu la torrenziale produzione di quartetti, quintetti, sestetti, sinfonie, concerti, ecc. che lo rese celebre in tutta Europa.
È destino di coloro che vissero a cavallo di due mondi, di due distinte situazioni estetiche, quello di apparire scarsamente riconoscibili e quindi di non poter offrirsi a immediata sintesi di giudizio. Se Mahler riuscì a essere capito e a diventare popolare solo mezzo secolo dopo la sua scomparsa ciò è da imputare sicuramente a questo fatto, che permette alla sua fisionomia di trasparire pienamente solo a distanza di tempo, dopo che l’epoca dei confronti con il suo immediato passato è ormai giunta ad operare decantazioni definitive. Esatto contemporaneo di Mahler e non inferiore alla sua grandezza, Hugo Wolf non ha comunque ancora trovato il suo momento, rimanendo confinato nel limbo degli epigoni che brillano di luce riflessa.
Sullo scorcio degli anni Cinquanta dello scorso secolo, entrato profondamente in crisi il «positivismo» strutturale che svolse fino alle più assurde ed estreme conseguenze l’idea seriale, l’interesse dei moderni compositori, ormai predisposto ad accogliere senza più riserve le componenti estemporanee del fatto musicale, iniziò quel processo di anatomia dei mezzi meccanici utilizzati per produrre musica che in breve tempo ristabilì l’antico equilibrio tra compositore e esecutore e che conseguentemente recuperò pure l’alone di mito destinato ad accompagnare la figura dell’interprete almeno dall’Ottocento in poi, quell’interprete che era rimasto esautorato nella ricerca tutta rivolta ai valori astratti dell’immediato periodo postweberniano.
Bertolt Brecht e Kurt Weill autori di un balletto? Nella loro crociata contro l’«arte culinaria», contro le espressioni consolatorie, già il loro approdo all’opera (Ascesa e caduta della città di Mahagonny, 1930) avvenne fra mille cautele e trasformazioni del modello operistico di tipo illusionistico. Figurarsi quindi il balletto, che fra le arti dello spettacolo rappresenta la manifestazione più evasiva, più svincolata dal reale! Eppure l’incontro avvenne nel 1933 con la composizione de I sette peccati capitali. E si trattò di un doppio incontro.
In un’intervista rilasciata a Jean-Claude Piguet nel 1963 così Ernest Ansermet si espresse: «Fino alla mia generazione compresa, i direttori d’orchestra possedevano in generale una formazione musicale nazionale, e ciò spiega il fatto che si consacrassero a un ben determinato repertorio. Per questo motivo si può sostenere che potessero facilmente cogliere il senso della musica nella quale erano educati (...).
Il primo incontro di Bach con il pianoforte avvenne probabilmente nel 1726 su uno strumento costruito da Gottfried Silbermann, che non gli piacque. Un altro incontro dev’essere avvenuto in occasione dell’invito a Potsdam dove poté visitare la collezione dei nuovi strumenti posseduti da Federico II. È anzi probabile che il Ricercare a 3 dell’Offerta musicale venisse improvvisato da Bach su un pianoforte Silbermann della raccolta regia. Al di là di queste occasioni non è accertata nessuna prova dell’interesse di Bach per lo strumento che sarebbe diventato uno dei principali veicoli della sua musica.
Il riso praticato dai moderni non è quella manifestazione in tutto liberatoria e rigenerante conosciuta dagli antichi, per i quali poteva ancora valere la psicologia dello sdoppiamento della personalità, la coesistenza allo stesso livello di coscienza di leggero e di grave, di serio e di faceto, di nobile e di umile. Dopo Mozart non è più possibile mantenere distinti in separato ordine i due piani espressivi: il rovescio di senso, che prima nella parodia confermava il modello, non può più attuarsi in una situazione di compenetrazione degli estremi dove all’adeguamento funzionale si sostituisce l’ambiguità. Concordando con Karl Barth siamo infatti indotti a riconoscere come in Mozart «quanto vi è di grave è come se levitasse e quanto vi è di lieve ha un peso infinito».
"Sono (...) la musica e la poesia tanto simili e di natura congiunta che ben può dirsi (non senza misterio di esse favoleggiando) ch’ambe nascessero ad un medesimo parto in Parnaso (...). Ma come a nascere fu prima la poesia, così la musica lei (come sua donna) riverisce ed onora. In tanto che, quasi ombra di lei divenuta, la di muover il piè non ardisce dove la sua maggiore non la preceda".