BELLINI: LA MELODIA CHE VINCE OGNI PAROLA
Vi sono artisti sui quali il luogo comune ha agito con prepotenza a volte fastidiosa, ma che dal luogo comune diventato popolare ricavano illuminazione innegabile. Nel centenario della nascita di Vincenzo Bellini fu ad esempio facile a Gabriele D’Annunzio individuare il tema su cui tessere l’ode celebrativa, ritrovando nella «semplice, nuda e sola... melodia che vince ogni parola» il denominatore di un’estetica di evidenza allarmante. Ma appunto, nonostante gli sforzi che si possono dispiegare alla ricerca di livelli di maggiore problematicità, il discorso sul maestro catanese rimane ancorato a quel fondamento. Fragile fondamento, si è sempre detto, tanto da rilevare l’insignificanza di Bellini come codificatore di una poetica valida al di là del caso specifico.
Giuseppe Mazzini
In verità Bellini è uno di quegli autori che, per una propria autosufficienza, per un equilibrio che non può essere d’esempio che a se stesso, sembrano fatti apposta per mettere in crisi la concezione della storia dell’arte vista come sviluppo, evoluzione instancabile da una forma all’altra, dove non c’è posto per coloro che pretendono di creare l’illusione della sospensione del tempo. Un’evidente difficoltà a situare il musicista si avvertì fin dai primi tempi, fin dalle note che nella sua Filosofia della musica (1836) gli dedicò Giuseppe Mazzini il quale, pur apprezzandone i raggiungimenti (nella Norma riconobbe l’ultimo atto «raffaellescamente ideato e disegnato»), non gli riscontrava le qualità dell’«intelletto progressivo» e si accontentava di attribuirgli «ingegno di transizione», considerandolo «un anello tra la scuola italiana come oggi l’abbiamo e la scuola futura».
In verità occorre subito dire che, nonostante il sussulto di rivolta dei Galli, che in Norma si intreccia al dramma individuale della vestale, e gli accenti guerreschi che ne I Puritani culminano nel «Suoni la tromba intrepido» (canto di taglio prettamente risorgimentale), la musica di Bellini non sembra accettare la prospettiva epica che l’opera italiana del tempo, aulica per tradizione, aveva ormai aperto tanto da diventare uno dei principali supporti culturali del concetto di Italia intesa come nazione. Bellini è certamente musicista di quell’epoca e a pieno titolo, ma nel suo caso il rapporto con il proprio tempo non si instaura certo attraverso vincoli diretti con una maniera affermata. Quando ciò gli si pose come problema – è il caso de I Puritani, opera concepita per le scene parigine in cui intraprese il progetto di adeguamento al modello internazionale codificato dalla scuola romantica – il risultato in tutta la sua abilità e capacità di cogliere, attraverso una più complessa concezione della strumentazione, risonanze inedite al dramma, tradisce in misura spesso rilevante la difficoltà di acquisire una nuova identità. Non per niente dopo l’esperienza parigina al Florimo, che l’aveva sollecitato a rivedere l’esile scrittura orchestrale della Norma, rispondeva: «e poi tu credi che io potrò usare la maniera d’istrumentare dei Puritani? T’inganni: in qualche parte potrà essere, ma generalmente mi sarà impossibile per la natura piana e corsiva delle cantilene, che non ammettono altra natura d’istrumentazione: e ciò ho ben riflettuto».
Felice Romani
Checché si dica quindi del mito della «melodia belliniana», che senz’altro fu ed è anche mito, non è possibile aggirare il problema di una musica che pone e risolve le sue tensioni nel canto, concepito come dispiegamento di un dilatato ordine melodico che, nella sua articolazione drammatica, si dimostra capace di asservire gli altri parametri del discorso senza che tale estenuato modello di essenzialità possa dar adito a obiezioni circa l’apparente povertà dei mezzi. Oggi è possibile affermarlo tranquillamente, dopo che è stata definitivamente distrutta la favola del Bellini melodista primigenio e di fronte all’evidenza delle nove elaborazioni a cui, prima di giungere alla versione definitiva, fu sottoposto il suo canto più emblematico, «Casta diva». D’altronde studi recenti hanno ormai messo chiaramente in luce, in contrapposizione ad altri anche ragguardevoli operisti italiani, la chiarezza d’intenti di Bellini per quanto concerne la cura riposta nella scelta dei libretti e l’applicazione nella loro elaborazione. Ne fa stato il sodalizio con un librettista quale Felice Romani, fra i più colti dell’epoca, e il tempo che il musicista si riservava per la composizione delle sue opere, sensibilmente più lungo rispetto a quello concesso dalle consuetudini impresariali.
Sebbene nel caso di Bellini non si possa parlare di predisposizione teoretica pari a quella degli illustri riformatori del melodramma che lo precedettero, fu ammirevole la sua determinazione nel tirare rigorosamente le conseguenze da una concezione drammatica che, nel caso di Norma, lo vide risoluto nell’opporsi alle pressioni dell’impresario che aveva osato chiedergli di porre il rogo sulla scena e di farvi salire la protagonista nell’atto di intonare una cabaletta finale. Così a Carlo Pepoli, librettista de I Puritani, scriveva: «gli artifizi musicali ammazzano l’effetto delle situazioni» e, a livello di scrittura vocale, non si sottolineerà mai abbastanza il suo ruolo nell’indicare, attraverso la melodia sillabica ormai emancipata dallo stile fiorito condotto ad esasperazione virtuosistica nella lezione rossiniana, il superamento della nozione classica e convenzionale di belcanto. Non per nulla al cronista milanese de «L’Eco» (16 febbraio 1829) non era sfuggito che «egli ha preso un metodo, che non ben sappiamo se debba dirsi declamazione cantata o canto declamato. Lo scopo di questo metodo sembra essere di riunire la forza della declamazione alla gentilezza del canto; il suo pericolo potrebbe essere quello di confondere declamazione e canto, e produrre monotonia, lentezza, spezzatura e titubanza nella cantilena, e mancanza di motivi che allettino, e rimangano nell’orecchio»; costatazione che prelude alla consapevolezza di Wagner nel riconoscere una significativa parentela fra la propria intuizione di «melodia infinita» e il canto belliniano.
Il soprano Giuditta Pasta, prima interprete di Norma al Teatro alla Scala, 1831
Il modello melodico di Bellini nella sua sostanza costituisce una monade, un mondo a sé, come risultato di un’operazione che, mirando a cogliere a livelli sempre più profondi di intensità gli aspetti espressivi, in realtà è giunta a un grado tale di distillazione da trasfigurare il discorso in formulazioni librate, eteree, di sentimento privato di peso specifico e riproposto, pur agendo nella realtà della tragedia, nella dimensione unica di un limbo colmo di umanità senza essere sottoposto alle regole della psicologia e incorporeo senza apparire concettuale. Basta la configurazione di melodie «lunghe, lunghe» (Verdi), a lunga gittata, capaci di trattenere l’espressione sospesa sui vortici del vuoto, per ottenere una concezione del dramma che, nel gesto di canto purificato di ogni scoria, produce catarsi ancor prima di giungere all’evento risolutore.
Nelle opere belliniane non c’è posto per i colpi di scena e, nonostante che il libretto di Norma presenti spunti di conflitti a volte isterici, il furore di Medea a cui si ispira il soggetto non può compiersi in un canto capace invece di decantare il sentimento fin dal suo primo apparire. Che la Norma sia il capolavoro di Bellini, per il rigore dell’impianto «neoclassico» e per molti altri motivi, è fuor di dubbio; ma Norma lo è forse soprattutto per il deciso spostamento dell’ago della bilancia del canto verso la proprietà acustica delle voci femminili. La protagonista è quasi sempre in scena, si sa, tanto da costituire il ruolo più sfiancante di tutta la storia del melodramma; inoltre dalla scena VII fino all’entrata di Pollione alla fine dell’atto primo e nelle prime tre scene dell’atto secondo – tutte centrate sui personaggi di Norma, Adalgisa e Clotilde – si costituiscono due capisaldi simmetrici che, nella siderea dimensione delle voci femminili, percorrono una linearità sottratta al controllo temporale, in una fissità di sentimento che vibra al di fuori e al di là delle passioni, al termine di un processo che riconsegna all’ascolto l’espressione epurata da troppo diretta commozione.
Oltre questa misura non poteva sussistere niente di perfettibile e per questo motivo la lezione belliniana, al pari dell’esperienza di un Mozart o di uno Chopin, non poté alimentare epigonismo di nessun genere.