BONJOUR PARIS
Come ogni avanguardia che si rispetti il «Groupe des Six» ebbe vita breve, non più di sette anni a partire dal 1918, con un primo periodo (fino al 1921) di coerente messa in pratica degli intenti comunitari, un momento di perdita di omogeneità a partire dal 1922 e la dissoluzione completa alla morte di Eric Satie nel 1925. Già la sua denominazione può spiegare questo destino: il termine fu lanciato dal giornalista Henri Collet all’insaputa degli stessi compositori (Darius Milhaud, Arthur Honegger, Francis Poulenc, Georges Auric, Louis Durey, Germaine Tailleferre) riuniti solo dall’amicizia e dall’entusiasmo per il nuovo.
Se tale casualità motiva la breve durata della loro azione, essa fornisce tuttavia ragione dell’enorme portata rappresentata per l’estetica musicale del tempo da risultati corrispondenti a un’aspettativa generale di rinnovamento che la grande guerra aveva prodotto non solo sul piano politico ma anche su quello della coscienza di un solco di confine tracciato nei confronti del passato artistico.
Fu compito di Jean Cocteau redigere il decalogo con il programma estetico additato agli amici musicisti. Le Coq et l’Arlequin, pubblicato nel 1918, divenne il loro breviario. Vi troviamo il disprezzo per Wagner, che non riflette solo la consapevolezza di una diversa concezione estetica («Wagner è il tipo di musica che si ascolta con la testa fra le mani») ma corrisponde certamente anche a una situazione di rinato nazionalismo indotto dalle tensioni che avevano alimentato il conflitto mondiale. Con ciò il gruppo si ritrovava in sintonia con la polemica antiwagneriana di Nietzsche il quale alle brume del nord oppose la solarità mediterranea della musica di Bizet («Quando Nietzsche elogia Carmen, loda la franchezza che la nostra generazione cerca nel music-hall»).
Con ciò si dichiara anche il distacco dall’immediato precedente francese, quello rappresentato dalla generazione di Debussy, ritenuta ancora troppo compromessa con l’umbratile mondo wagneriano: «Basta con le nuvole, le onde, gli acquarium, le ondine e i profumi della notte; abbiamo bisogno di una musica sulla terra, una musica di tutti i giorni».
Eric Satie
Il modello è individuato in Satie, nella sua musica spoglia ed essenziale, nel suo modo di vivere appartato lontano dalla luce dei riflettori, in un compito estetico che rifiuta la straordinarietà per sposare il quotidiano («L’opposizione sostenuta da Satie consiste in un ritorno alla semplicità»). Attraverso Satie, che nel tentativo di epurarsi e di liberarsi del peso della retorica tardoromantica aveva riscoperto la vivacità del caffè concerto, i Sei si sentirono legittimati a valorizzare gli aspetti dell’espressione leggera («Senza dubbio è là che un giovane musicista potrebbe riprendere il filo perduto»).
Pablo Picasso, Sipario per Parade. 1917
Parade, spettacolo rappresentato nel 1917 come frutto della collaborazione fra Satie, Cocteau, Picasso e Massine per iniziativa di Diaghilew, oltre a un noto scandalo fu in tutti i sensi il principale termine di riferimento per l’estetica dei Sei, anche per quanto essa doveva al precedente futurista italiano, in particolare al manifesto sul Teatro di varietà di Marinetti, il quale nel 1913 già aveva proclamato: «Il Teatro di varietà distrugge il solenne, il sacro, il serio, il sublime dell’arte coll’A maiuscolo».
L’appello ai clown, ai macchiettisti, agli imitatori e parodisti, ai giocolieri musicali e agli eccentrici americani chiamati in causa da Marinetti per rinnovare il teatro dalle radici si ritrova in Parade e nelle successive opere dei Sei, in Le Boeuf sur le toit ad esempio il quale, oltre all’idea di abbandonare il corpo di ballo vero e proprio chiedendo collaborazione ai clown Fratellini e del Circo Medrano nella prima rappresentazione parigina del 1920, fu ripreso poco dopo al Coliseum di Londra tra un numero di Grock e un altro di acrobati giapponesi e più tardi, di nuovo a Parigi, fu inserito in una delle riviste del Ba-ta-clan, «famoso per la presenza di ballerine nude e per lo spirito a buon mercato dei suoi compère et commère» (come disse Milhaud).
Le Boeuf introduceva i ritmi esotici ed esilaranti del samba brasiliano che, in linea con la nuova estetica del music-hall ormai aperta alla contaminazione dei modi leggeri provenienti da oltre Atlantico (del jazz soprattutto), stanno a testimoniare una ricerca di primitivismo, un ritrovamento dell’essenza dell’arte nel mito dell’originale.
La Création du monde ne costituisce il momento più rilevante nella concezione di «ballet nègre» per il quale Fernand Léger concepì costumi di chiara ispirazione africana. Milhaud a sua volta si rivolse al modello musicale delle orchestre ascoltate ad Harlem, alle forme dirette e spontanee di un jazz che, pur originato da un’esperienza emarginata, stava diventando simbolo dell’americanismo e della moderna condizione di vita urbana, con le sue tensioni, le frenesie, l’assordante dimensione sonora e l’incalzare dei suoi ritmi, raggiungendo di nuovo (in quanto metafora del moderno vissuto) una nozione futuristica.
Fernand Léger, Maquette per La Création du monde
Come misurare l’impatto dei Sei? Attraverso gli scandali certamente, come ce ne furono. Ma a Parigi, per convenzione, lo scandalo si verificava alla prima sortita; la seconda e la terza costituivano già un mondano riconoscimento, per cui dietro tale realtà di facciata è importante individuare il ruolo che, nella continuità del movimento artistico, ebbero i mecenati, per lo più nobili e alto borghesi, primo fra tutti il conte Etienne de Beaumont patrocinatore di Le Boeuf sur le toit, a significare il tipo di risposta di una simile avanguardia nell’ambito di attese per certi versi non dissimili dalle condizioni di fruizione dell’arte ottocentesca a cui per principio essa si opponeva e che spiegano, nel processo di integrazione sociale, l’inevitabile venir meno dello slancio ideale che alla parabola dei Sei, come a qualsiasi altro gruppo, dettò a un certo momento l’esito finale.