• Diario d'ascolto
  • 21 Agosto 2020

    COMMISTIONI

      Carlo Piccardi

    Gli intrecci tra espressioni musicali di consumo e musica di tradizione colta non sono più una novità. Hanno dilagato al punto da non più imporsi come una categoria. Furono dapprima le ragioni turistiche a far crescere gli incontri dell’opera lirica con la massa in spazi aperti (Arena di Verona, Sferisterio di Macerata, Caracalla a Roma, ecc.), estendendo palcoscenico e platea per un’espressione che tuttavia rimane sempre integra e fedele alla propria fisionomia originale.

     

    Agli anni Novanta invece risalgono travalicamenti vari che hanno portato a mescolanze spettacolari, come fu lo spettacolo di apertura dei giochi olimpici di Barcellona nel 1992 con le star della lirica spagnola non solo impegnate in arie e romanze d’opera ma anche in commistione con cantori popolari.
    Quasi contemporaneamente, a fare da spartiacque, venne poi Pavarotti & Friends organizzato dal grande tenore a Modena, dove si esibì con Sting, Zucchero, Lucio Dalla, Aaron Neville, Suzanne Vega, Mike Oldfield, Brian May, Patricia Kaas e Bob Geldof (con scontata e gettonata appendice discografica). A dire il vero tali esperienze hanno radici lontane risalenti almeno ai Beatles, a quell’All you need is love, in cui per la prima volta (alla fine degli anni Sessanta) in un tessuto divagante di suoni elettrici compariva la squillante sonorità delle trombe barocche. 

     LUCIANO E FRIENDS

    Fu l’inaugurazione della fase onnivora della musica leggera che, sull’onda dell’internazionalizzazione (della somma sincronica di varie identità), acquisendo il principio dell’unità del composito, aveva incominciato a estenderlo alla dimensione diacronica, guardando indietro nel tempo. I risultati sono in parte misurabili: anche se l’ascoltatore non è direttamente sollecitato a sceverare, non è difficile individuare quanto del patrimonio dei vari filoni della cosiddetta musica classica sia andato a finire nel calderone della musica leggera internazionale. Il processo è stato inconsapevole e, in quanto tale, di interesse poco rilevante. Oltretutto esso non ha prodotto l’incontro diretto e la collaborazione tra artisti di diversa origine: cantanti e complessi di musica leggera si sono appropriati di dati stilistici a loro estranei, fagocitandoli.

    Il problema ha cambiato aspetto quando siamo arrivati all’incontro diretto di modi disparati e alla combinazione realizzata in modo da preservare a ognuno la propria identità.
    Si tratta di un aspetto che ha anche risvolti giuridici nella misura in cui ha trovato impreparata la legislazione sui diritti d’autore. È noto il caso del brano di Michael Jackson dal titolo Will you be there, in cui sono integrati 67 secondi della Nona di Beethoven che suscitò un processo con l’Orchestra di Cleveland e relativa richiesta di 7 milioni di dollari di risarcimento. In seguito ci fu una causa tra lo stesso Jackson e la casa editrice Schott a motivo dell’uso di uno stentoreo spezzone dei Carmina burana di Carl Orff impiegato dal cantante in apertura dei suoi spettacoli.
    Qui siamo di fronte a un preciso riconoscimento di giurisdizioni artistiche sia da parte dei protagonisti sia da parte del pubblico.

     JACKSON

    Il fenomeno ha innanzitutto una rilevanza dal punto di vista socioculturale. Esso è indice non tanto di una fusione di modi o di stili, cioè del formarsi di un gusto unitario, quanto di una forma di bilinguismo, o meglio di poliglottismo musicale, che vede coesistere in uno stesso individuo-fruitore la capacità di comprendere lingue musicali diverse. In altre parole, il pubblico della Scala è certamente formato da patiti dell’opera, ma, a differenza dell’esclusività che dominava un tempo, oggi risulta composto di persone che possono avere familiarità con il jazz, la canzone, il folclore musicale, ecc. 

    Non esistono ancora studi sistematici di tale nuova realtà ma è chiaro che, quando imprese commerciali quali le case discografiche cominciano a mescolare nei loro cataloghi manifestazioni di provenienza diversa sotto la stessa etichetta, ciò significa che il processo è giunto a un grado talmente avanzato da poter essere sfruttato a fini di lucro. Su questo aspetto (socioculturale), di fronte a una realtà in atto, non ha senso fare dei distinguo.

     LUCIANO E ZUCCHERO

    Viceversa dei distinguo si impongono per quanto riguarda l’aspetto estetico. Per quanto riguarda Pavarotti & Friends l’abbinamento meccanico di voci e materiali diversi, addirittura l’ammucchiata di Pavarotti, Dalla, Zucchero, Sting e Brian May ne La donna è mobile, non possono sfuggire all’accusa di faciloneria. Così il Panis angelicus, intonato da Sting congiuntamente a Pavarotti, rivelava un arrancare ansimante del cantante leggero trascinato troppo al di fuori delle sue possibilità vocali.
    Due sono le costatazioni che allora si impongono. Il trasferimento di una composizione ‘classica’ a un’altra concezione di canto è accettabile solo se non si tratta di una semplice rilettura, ma se alla diversa maniera è data la possibilità di confermarsi nella sua ricchezza e varietà espressiva. Era il caso dell’Ave Maria di Schubert cantata da Aaron Neville, il quale vi trasferì l’intensità del soul, di una spiritualità moderna che incontra facilmente la vibrazione della spiritualità ‘romantica’ dell’originale. In questo senso abbiamo esempi famosi ancor più validi. Penso alla versione di Giochi proibiti incisa da Miriam Makeba.

     LUCIANO E ZUCCHERO

    Va considerata poi Miserere, la canzone di Zucchero cantata in coppia con Pavarotti, dove sono presenti due livelli ben distinti, quello narrativo del cantante leggero (meditazione sulla condizione del peccatore) e quello lirico in senso proprio (con funzione lirica) del cantante operistico (“Miserere, misero me, però brindo alla vita”), inserito quasi come citazione (qualcuno ha voluto vedervi un richiamo alla Bohème). È chiaro che lì si stabilisce un rapporto di necessità e di interdipendenza, per cui non sarebbe immaginabile una versione migliore fatta con altri mezzi.

    MILVA BERIO

    Non dobbiamo dimenticare infine la rivelazione di Caruso, di Lucio Dalla, che, con l’apporto di Pavarotti sul passo “Ti voglio bene …” incrementa il significato di evocazione di un modo d’essere perduto legato all’intonazione di romanza, oltre che a evidenziare una continuità di modi rispetto al canto di tradizione che la canzone moderna italiana ancora detiene. Non si tratta di scoperte dell’ultima ora: quando Luciano Berio in La vera storia portò Milva sul palcoscenico del Teatro alla Scala (1982) in un’opera contemporanea già l’aveva capito, situandola come tranche de vie nella sua identità riconoscibile e indicando la via del composito a forme estetiche aperte. 

    Il fatto di veder generalizzato questo discorso, quando si sia capaci di evitare la banalizzazione, non può che essere salutato come un segno di vitalità della comunicazione artistica.