DOMENICO SCARLATTI EUROPEO
«Suonare bene Scarlatti – come ha sostenuto Massimo Mila – è qualche cosa di diverso dal suonare bene Bach o dal suonare bene Mozart: è un tipo di prestazione artistica particolare che non può essere sostituito con altre». Il complesso di qualità pianistiche riunito in questa musica costituisce una summa in grado di porla emblematicamente al di fuori del tempo come valore assoluto, che la circostanza che ci ha tramandato tali capolavori come messaggi in una bottiglia staccati dalla biografia del musicista ha certamente amplificato a mito.
In questo senso la portata della musica clavicembalistica di Scarlatti non è italiana ma europea, e non solo per le vicende che lo condussero ad agire oltre i confini del proprio paese d’origine. Lo rivela la stessa privatezza in cui nacquero quelli che egli chiamava «esercizi» formalmente destinati alla sovrana allieva (la principessa Maria Teresa di Portogallo andata poi in sposa a Ferdinando principe delle Asturie), ma composti quasi in un dialogo diretto con se stesso in un laboratorio sottratto agli esterni condizionamenti come parrebbe rivelare l’esiguo numero di sonate pubblicate: poco più della ventesima parte (le 32 sonate messe in circolazione a Londra nel 1738).
In verità, guardando in prospettiva, sempre più l’esperienza clavicembalistica del compositore napoletano appare come un tenace tentativo di resistere all’affermazione dello stile galante che, a partire dal terzo decennio del XVIII secolo, gettò le basi per la creazione di una maniera musicale continentale. Scarlatti in verità non imboccò le aperture intraviste dallo stile galante, come liberazione dalla pratica contrappuntistica e semplificazione del linguaggio nella trasparenza e nelle simmetrie melodiche ed armoniche. È appurato che anche le sue ultime sonate non concedono nulla alla nuova maniera. Benché la sua scrittura induca a stupefazione, percorsa com’è da una febbre di invenzioni che non lasciano tempo alla meraviglia di rendersi conto da dove provenga l’incanto, il patrimonio di dottrina adombrata rivela precisi agganci con un’eredità individuata e approfondita nelle sue valenze progressive.
Merito di Giorgio Pestelli (Le sonate di Domenico Scarlatti, Ed. Giappichelli, Torino 1967) è l’aver svelato l’origine della frammentata scrittura scarlattiana nell’antica toccata clavicembalistica, nell’esaltazione di libertà improvvisatoria legata tuttavia ancora ai valori contrappuntistici in un apparato di impianto figurale funzionante nel suono e nel contempo al di là del suono. Alimentata soprattutto al modello del padre Alessandro, le cui toccate sono spinte verso un fasto, una spettacolarità precipuamente risolta in valore scenografico nell’evocazione di grandiosi «lever de rideau», la scrittura di Domenico sviluppa l’aspetto immaginifico, capace di disegnare «figurativamente» come doppio stimolo alla fantasia temi, combinazioni, sonorità sempre riconoscibili come sprazzo di memoria del vissuto (al limite si considerano i materiali quasi citati del folclore iberico). Da tale punto di vista la sua musica è quindi profondamente calata nel suo tempo.
Della antica toccata Domenico colse tuttavia anche la capacità combinatoria in grado di individuare nella libertà il senso di un ordine al di là del suono stesso, di proporzioni e rapporti che l’antica dottrina aveva insegnato a indagare e che la moda galante stava sorpassando in una concezione meno mediata che si rivelava vincente. Facendo la propria scelta, apparentemente conservatrice, Scarlatti gettava tuttavia le basi di una vittoria al di là del proprio secolo anticipando, parallelamente alle operazioni che vedevano Bach impegnato a riformulare in prospettiva rinnovata il retaggio contrappuntistico del passato, gli esiti che dal tardo romanticismo si collegano alla musica moderna nel nuovo equilibrio tra forma ed espressione.
L’affermazione di Alfredo Casella secondo cui la sonata scarlattiana «nasce da sé, dalla fronte di Minerva» non è allora da intendere come meraviglia di fronte a una musica sbocciante come fiore senza radici, miracolosamente, ma certamente nel senso di un prodotto di una mente speculativa in grado di dominare la propria tecnica di scrittura, le proprie risorse espressive in un inquadramento profondamente razionalistico, dove Scarlatti (al pari di Bach) si rivela uomo del Settecento nell’aspetto antiretorico della sua musica, mantenuta a opportuna distanza da troppo mondani coinvolgimenti e riflettente «quel fervore razionalistico, quel precisarsi e raffinarsi dell’indagine scientifica, quel desiderio di portar ordine, propri dei tempi nuovi» (Bogianckino).