DOPPIA NAZIONALITA
Due figure apparentemente lontane quali Ferruccio Busoni (1866-1924) e Ermanno Wolf-Ferrari (1876-1948) - entrambi tormentati dal problema della «doppia nazionalità» italiana e tedesca, culturale prima ancora che politica – si trovarono a vivere la questione dell’identità stilistica in maniera lacerante proprio negli anni in cui il nazionalismo rinasceva più acceso a frapporre barriere e pregiudizi culturali di non poco conto fra le varie tradizioni.
Busoni in particolare proprio nel momento del massimo grado di assimilazione della cultura germanica prendeva coscienza della necessità di riallacciarsi alle proprie origini: «Da due giorni sono perseguitato da un’idea più forte di tutte le precedenti – scriveva il 19 maggio 1908 alla moglie – e precisamente che dovrei scrivere un’opera italiana». L’idea di Arlecchino, cioè di un lavoro ispirato alla commedia dell’arte, era quindi già in nuce in quel periodo, in cui tuttavia già stava facendosi largo nel panorama musicale europeo la tendenza a scrollarsi di dosso il pesante fardello tardoromantico, recuperando la trasparenza classica dei modi sei-settecenteschi dove il riferimento «italiano» più che nazionalisticamente inteso valeva come riferimento di civiltà originaria. Tale perlomeno appariva l’Arianna a Nasso (1912) di Richard Strauss e tale, pur accontentandosi dell’episodica evocazione bozzettistica, era già stato il significato de Le maschere (1901) di Pietro Mascagni.
L’operazione condotta da Wolf-Ferrari poi nei Quattro Rusteghi (1906), in sintonia con la settecentesca vivacità goldoniana perfettamente replicata nella magistrale e scintillante ouverture al Segreto di Susanna (1909), aveva già permesso a Giannotto Bastianelli di comprendere la componente di modernità presente nell’apparente operazione di restauro: «Chi ha orecchie fini si accorgerà ben presto che nelle deliziose scene dei Quattro Rusteghi, oltre alle mille reminiscenze classicistiche, vi si possono trovare dei pizzichi di acidità moderna saputi spargervi con scaltrezza dell’antiquario che ti rifà il mobile antico in modo da dar gusto agli occhi e alle natiche degli habitués dei nuovi mobili».
Ermanno Wolf-Ferrari
Se tuttavia in Wolf-Ferrari prevaleva il compiacimento di pace riacquistata, di fiducia rinascente attraverso il felice collaudo di forme che nella trasparenza ritrovavano anche la serenità della partecipazione del pubblico al fatto artistico, in Busoni il recupero classicistico (come richiamo alla luminosità mediterranea) era piuttosto da intendere quale tappa di una passione da cui fosse possibile uscire epurato e innalzato a stadio di dignità superiore. Il suo Arlecchino (1916) con ciò non costituiva l’ennesima replica della commedia delle maschere, nei termini di fuga dalle responsabilità verso atteggiamenti estetizzanti, bensì veniva a individuare un percorso parallelo quasi nel senso di un’esperienza rifatta con la coscienza dell’oggi, la quale non avrebbe più potuto concedersi a pretesti burleschi e ai lazzi (soddisfatta nel suo compito di divertire), ma alla quale sarebbe toccata la funzione di ammaestramento attraverso quel «riso doloroso» che, secondo l’autore, garantiva all’opera «il libretto più morale dopo quello del Flauto Magico». La spontaneità saggiata da Busoni in toni addirittura mozartiani doveva apparire perciò come dolore scontato, come risultato di un processo di purificazione.
Ferruccio Busoni, Arlecchino. Scenografia di Albert Isler per la messa in scena al Teatro Tedesco di Madgeburgo, 1927. Foto- Rudolf Hatzold (1884-1950)
Rifiutando il termine di «classicismo» egli annunciò il principio di una «nuova classicità», rivolta al passato come «dominio, vaglio e sfruttamento di tutte le esperienze precedenti», ma ugualmente protesa verso il futuro a vagheggiare «un’epoca di religiosa attività musicale alla quale nessun spirito corporativo avrà parte, in quanto gli eletti e gli iniziati non potranno non essere riconosciuti, e solo loro ne potranno invece essere i realizzatori».
E i segni lasciati da Busoni sulla generazione successiva appaiono ben più concreti di quanto non si pensi, e non solo teorici come comunemente si ammette. Proprio Arlecchino nella sua sinteticità d’impianto svela abbastanza chiaramente il debito che verso l’italiano avrebbe dovuto riconoscere Kurt Weill, il quale ne fu allievo tra il 1921 e il 1924. Lo strumentale, con la preponderanza dei fiati indirizzati verso l’asciuttezza timbrica, fissa già i caratteri neo-oggettivistici di Weill e di Hindemith prima maniera, mentre nel Terzetto compare quel ritmo puntato (sferzante e impietoso) che Weill sembra derivare dallo shimmy e che quindi non ha origine solo nel riferimento modernistico alla moda americana ma al significato più profondo di una musica già da tempo impegnata a insegnare l’essenzialità e il rifiuto del compromesso espressivo con la sentimentalità.