• Diario d'ascolto
  • 23 Settembre 2016

    Gareggiamento musicale

      Carlo Piccardi

    «Cantava la mia donna / che parea l’Usignolo, e l’Usignolo / cantava che parea la donna mia. /

     

    Quand’ei fu vinto e duolo / n’hebbe, e pianse e poi tacque, e volò via. / Ed ella per sua gloria / lieta nel canto risonò Vittoria».

    In questi versi presumibilmente ispirati dalla figura allora mitica di Vittoria Archilei, era già codificato il concetto agonistico fin dall’inizio associato all’apparizione del canto virtuosistico. Tale componimento del Confuso Accademico Ordito, risalente al 1611, porta infatti il titolo di Gareggiamento poetico e non è che una modesta tappa della fortuna letteraria del certame musicale che celebrò il punto culminante nell’Adone, in cui i fiammeggianti endecasillabi del Marino si sciolgono in vorticosa cascata di immagini, ritmi e sensazioni per farci rivivere la parabola dell’estenuata gara tra il solitario suonatore di liuto e l’usignolo. Ciò che i poeti idealizzavano, per quanto possa apparire incredibile, in verità era quello che spesso accadeva nei teatri dell’epoca dove le rappresentazioni, al di là del pretesto drammaturgico, attiravano pubblico soprattutto per l’aspetto circense dell’esibizione dei protagonisti.

     Venus Adonis y Cupido Carracci

    Memorabile è l’episodio del Farinelli, il più celebre castrato settecentesco, riportato dall’erudito Charles Burney: «Aveva diciassette anni quando lasciò Napoli per recarsi a Roma; qui in tutto il periodo in cui una certa opera tenne cartellone, aveva luogo ogni sera una gara tra lui ed un famoso esecutore di tromba che accompagnava col suo strumento un’aria cantata dal Farinelli. Sembrò sulle prime un’emulazione amichevole, di carattere semplicemente sportivo, fino a che il pubblico incominciò ad interessarsi alla contesa, parteggiando per l’uno o per l’altro: dopo che ognuno, separatamente, ebbe emessa una nota per dar prova della forza dei propri polmoni tentando di superare il rivale in vivacità e in potenza, eseguirono insieme un crescendo ed un trillo a distanza di una terza e lo sostennero a lungo mentre il pubblico ne attendeva ansiosamente la fine poiché entrambi sembravano esausti; e infatti il suonatore di tromba, sfinito, cedette, convinto tuttavia che il suo antagonista fosse altrettanto stanco e che tutto si sarebbe concluso in una battaglia senza vincitori né vinti. Farinelli, invece, mostrando di aver finora soltanto scherzato col suo competitore, col sorriso sulle labbra, senza riprender fiato e con intatto vigore, non soltanto emise una nota, la rinforzò e trillò, ma eseguì i più rapidi e difficili gorgheggi, e fu messo a tacere soltanto dalle acclamazioni del pubblico».

     Farinelli engraving

    Se a simili prestazioni cantanti e strumentisti giungevano estemporaneamente sotto la spinta del pubblico incitante in situazioni ovviamente non tramandate in notazione, la traccia di una pratica tanto favorita si ritrova nelle arie operistiche concertate con strumento obbligato (violino, oboe, flauto, ecc.) sopravvissuta fino all’ottocento, dove la dialettica drammatica si arricchisce con ciò di un doppio livello di contrapposizione.

    A tale premessa è da ricondurre l’interessante lavoro giovanile di Giacomo Meyerbeer, Gli amori di Teolinda composto a Venezia nel 1816 su libretto di Gaetano Rossi. Nella breve opera, nata evidentemente come composizione d’occasione all’intenzione dell’amico Heinrich Joseph Baerman (primo clarinetto della cappella di corte bavarese, dedicatario altresì dei concerti di Carl Maria von Weber il quale era rimasto ammaliato dalla sua tecnica superlativa) e della di lui compagna Hélène Harlas (soprano di non poche doti che nel 1812 era già stata interprete di una sua opera, La figlia di Jefte), i due virtuosi si fronteggiano sotto spoglie di personaggi arcadici. L’amore della pastorella Teolinda si accende all’ascolto del suono del clarinetto, lo strumento che dà voce ad Armidoro, pastore vezzoso quanto la molle sinuosità delle sue melodie incantatorie.
    In un’atmosfera di sogno che ha inizio all’alba, dove è impossibile distinguere la vicenda dal ricordo, le due voci si intrecciano, attraendosi, respingendosi, infiammandosi, delirando, pacificando l’animo in un gareggiamento dove l’uno sembra assumere le fattezze dell’altro (non per niente il fraseggio del Baerman fu paragonato dai contemporanei al canto del più celebre tenore del tempo, valendogli l’appellativo di «Rubini del clarinetto»).

     MEYERBEER RITRATTO

    Pur manifestando tutte le caratteristiche del certame (l’esasperata progressione verso i più iperbolici tratti esecutivi) la finzione pastorale ne assorbe la dirompente energia la quale trascende nell’espressione il pretesto agonistico che la anima.
    Apparentemente soggetto e svolgimento rimandano al Settecento: la vocalità fantasiosamente infiorettata deriva comunque da Rossini che evidentemente Meyerbeer aveva abilmente assimilato già prima di metter piede su suolo italiano.

    ROSSINI

    Il discorso solistico del clarinetto, pur sfoggiando disinvolto virtuosismo sulla linea di una pratica radicata nel costume ereditato dal secolo precedente, introduce invece una dimensione di sonorità prospetticamente sfuggente, rifratta in echi al limite dell’impalpabile, di colorazione già romantica, benché incapace di conseguire quell’attonito e castigato lirismo dispiegato da Schubert in Der Hirt auf dem Felsen per soprano, clarinetto e pianoforte indirettamente provocato da quest’esempio (la dedicataria Anna Milder-Hauptmann, soprano berlinese, era di casa nella cerchia dei Meyerbeer).
    Su tutto rimane in evidenza una capacità drammaturgica di prim’ordine che, per mezzo dei pochi elementi a disposizione, mette in mostra la sapienza di Meyerbeer nel dare efficace taglio teatrale all’azione di per sé fragile.
    L’economia nella misura e nella distribuzione degli accadimenti è qualcosa di magistrale e tale comunque da confutare le pesanti riserve a cui il musicista fu sottoposto da parte dell’ambiente intellettuale del tempo, di Schumann e Heine soprattutto, il quale osò affermare «che le opere di Meyerbeer non sono nate organicamente, sono bensì combinazioni di particelle, e che egli ottiene i suoi effetti per calcolo, cosicché si crede di scoprire dietro il mantello sfarzoso misera prosa».

     MEYERBEER-TEOLINDA

    L’animosità verso un artista certamente poco simpatico nella sua ricerca accanita del successo, la stessa sua anomala posizione di artista tedesco completamente italianizzato in un’epoca in cui la premessa nazionalistica qualificava uno stile e una cultura, impedivano il riconoscimento di un talento teatrale immediatamente consacrato dal pubblico ma negato dalla critica la cui azione riuscì ad emarginare la musica di Meyerbeer fino ai tempi nostri, che non hanno evidentemente trovato ancora l’equilibrio necessario ad ammetterne una rivalutazione che tuttavia prima o poi si imporrà.