GIUDITTA PASTA, LA VOCE E LE PASSIONI
Rivelatasi come cantante rossiniana, nel 1826 Giuditta Pasta vive la svolta con la Niobe di Giovanni Pacini che, nell’interiorizzazione delle sventure che colpirono questo personaggio mitico, mostra la transizione all’area romantica. Nel 1831 ella segna, e ne è nel contempo segnata, il personaggio della Norma belliniana che, nel passaggio di registro da mezzo soprano a soprano, marcò un nuovo passo verso la passione epurata dalle scorie della condizione terrena, innalzata allo stadio del “sublime tragico” come lo stesso Bellini riconobbe.
Il ritratto è quindi quello di una cantante che, in meno di vent’anni di attività, impresse alla storia dell’interpretazione una formidabile spinta evolutiva che le ha meritato il posto fra le cantanti storiche. La Pasta merita inoltre un discorso a sé per la morigeratezza di vita, che la distingue fra le dive del tempo, famose spesso più per le esperienze avventurose e irregolari che per l’esito artistico. Fu una cantante “tutta casa e teatro” potremmo dire di lei, benché la permanenza in Italia per l’educazione dei figli fosse compromessa dagli innumerevoli soggiorni a Parigi, Londra, San Pietroburgo.
Louis Dupré, Giuditta Pasta, 1831, litografia, British Museum
Ad illustrarne la personalità, quasi come cifra di un modo d’essere assai lontano da come si usa immaginare una divina del canto, rimane significativo l’originale regalo a Bellini dopo il successo di Norma: “Permettete che io vi offra ciò che mi fu di qualche sollievo nell’immenso timore che tutt’ora mi perseguita, trovandomi poco atta a rendere i vostri sublimi concerti: questa lampada nella notte e questi fiori nel giorno furono testimoni dei miei studi per Norma, nonché del desiderio ch’io nutro di esser sempre più degna della vostra stima”.
Johann Jacob Wetzel, Lugano, acquatinta, 194 x 274 mm (1823). Biblioteca Cantonale di Lugano, fondo Giorgio Ghiringhelli
La Pasta fu in senso proprio un’ardente patriota: nel 1848 durante le Cinque giornate mise la sua casa di Milano al numero 2 di Contrada del Monte (oggi Via Montenapoleone) a disposizione del comitato d’assistenza del governo provvisorio, aiutandolo finanziariamente. Ciò spiega il suo breve esilio a Lugano, dove i cittadini d’allora furono probabilmente gli ultimi ad ascoltarne la voce in uno dei concerti organizzati da Giuseppe Mazzini per gli emigrati poveri, tenuto al Teatro Sociale di Piazza Bandoria. Il 1° settembre “Il Repubblicano della Svizzera italiana” annunciava:
“Il Comitato, sempre intento a giovare allo scopo pel quale venne istituito, ha pregato alcuni celebri virtuosi di Canto che trovansi presentemente nel Cantone Ticino di voler contribuire colla loro nobilissima arte a sostenere una Accademia a favore della causa del comitato medesimo. Intanto sia a somma lode dei virtuosi che prenderanno parte a quest’atto di beneficenza sia nell’interesse stesso della cosa ci gode l’animo di far conoscere al pubblico i nomi delle signore Taccani-Tasca, sorelle Giannoni e Felice Varesi”.
Il fatto di poter contare sul Varesi, il primo Rigoletto verdiano, parlava da sé, ma più significativo ancora era l’annuncio dell’adesione all’iniziativa di Giuditta Pasta, la quale aveva cantato per un’ultima volta il 22 marzo a Brunate, quando, avuta notizia della vittoria degli insorti a Milano, si recò con un manipolo di fedelissimi sul colle che sovrasta Como, dove piantò la bandiera tricolore e intonò l’inno dell’Italia libera.
Il 5 settembre la Pasta non fu presente alla prima manifestazione (in occasione della quale il quotidiano luganese sottolineava come “la musica, che da tanti anni serve di pascolo agli ozi colpevoli dei ricchi, questa sera esercitava un ministero infinitamente morale, quale si è quello di raccogliere l’obolo per soccorrere ad un infortunio santissimo”), ma probabilmente lo fu il 10 e sicuramente il 19, suscitando grande entusiasmo.
Ad ascoltarla, in un angolo del teatro, si era fatto notare Giuseppe Mazzini, il quale testimoniò l’evento in una lettera: “Povera vecchia, ha cantato dopo diciotto anni, credo, di silenzio. M’è piaciuta, e stavo proprio tremando per lei quando è comparsa, ma ha cantato in un modo da farmi sentire l’eco di quello che dev’essere stata un giorno: e l’hanno applaudita freneticamente”.
Giuseppe Mazzini
Il senso di quegli applausi fu colto dal cronista del “Repubblicano”: “Né i plausi in cui proruppe la udienza sovente avevano qui lo stesso significato che d’ordinario; non erano cioè il risultato di un pazzo entusiasmo, erano come un nuovo patto giurato alla commozione della soave musica del Donizetti, e di quella a grandi masse del Verdi, alla salute della patria sospirata, che in tutte queste armonie era il pensiero dominatore. Era un assenso nuovo a quella fede, per la quale alcuni morivano, altri si trovavano costretti a trarre la vita sotto il cielo che non gli vide nascere. E solo la fede per cui si muore o si lasciano i cari lari è quella che fa vincere [...]”.