• Diario d'ascolto
  • 11 Febbraio 2015

    Guillaume de Machaut, itinerario di musica e poesia

    Guillaume de Machaut è fuori di dubbio il primo compositore del mondo occidentale ad aver lasciato testimonianza organica della sua creatività poetica e musicale.

    In vita la sua fama fu grande e si mantenne per lungo tempo post mortem, tanto che non solo le sue musiche sono rintracciabili in una moltitudine di manoscritti ritrovati in ogni angolo d’Europa, ma il suo nome riappare come ineliminabile punto di riferimento per i teorici di un secolo dopo e oltre, se il Mersenne non dimentica di citarlo nel suo epistolario (1635). A Machaut toccò l’onore, immediatamente dopo la sua scomparsa, di essere celebrato in quello che è forse il primo necrologio musicale della storia: scritta dal discepolo Eustache Deschamps e messa in musica da François Andrieu, tale Déploration sur la mort de Machaut è il capostipite di una serie di dichiarazioni in musica riservate a grandi personalità marcanti dell’evoluzione storica del linguaggio (celebre la Déploration sur la mort de Johannes Ockeghem di Josquin). Machaut è il primo nome di musicista che non si perda tenebroso nell’oscurità dei secoli, contrassegnando con ciò un momento di passaggio, il compimento di un processo in atto già da tempo. Punto culminante della laicizzazione delle arti letterarie e musicali che si era manifestata due o tre secoli prima di lui, il poeta musicista può ormai permettersi di passare disinvoltamente dal sacro al profano senza tema degli anatemi lanciati contro le innovazioni dell’ultima ora da parte degli esponenti più ortodossi della tradizione ecclesiastica, il più duro dei quali alla fine del secolo precedente (1283) aveva visto scatenarsi il francescano Guibert de Tournay: «Essi non cantano in coro con Maria, sorella di Mosè, ma a palazzo con Erodiade per farsi applaudire da Erode e dai suoi commensali... Questo canta sotto (succinit), quello discanta (discinit), l’altro canta sopra (superscinit), un altro ancora divide, rompe le note a metà; il suono della voce è a volte strozzato, a volte spezzato, oppure gonfiato o prolungato senza misura, a volte – ho vergogna a dirlo – arriva a nitrire come un cavallo; a volte ancora, abdicando al vigore maschile, si abbandona alla gracilità della voce di donna».

    Se tale era la reazione alle modeste audacie della musica di mezzo secolo prima, che cosa si poteva dire delle elucubrate sofisticazioni introdotte dall’Ars Nova che Machaut rappresentava in prima linea? Proprio mentre il compositore era ai suoi esordi, perfino un papa si era mosso contro una maniera ormai organizzata in scuola. Invano Giovanni XXII con la bolla Docta Sanctorum (1324) additava a disprezzo l’abitudine di prostituire le melodie ecclesiastiche con dei discanti e di farcirle di seconde (motetus) e terze voci (triplum), sovrapponendo al latino testi in lingua volgare. Sempre più spesso si parlava di restaurazione del canto gregoriano, ma ciò facendo sempre di più l’esortazione suonava nostalgica e, prendendo atto degli «abusi» che si moltiplicavano nel tempo, ne riconosceva l’esistenza.

    La polifonia dunque, in forme ormai perfezionate, segna un momento di presa di coscienza di uno spazio creativo sottratto a regole ritenute immutabili. Se oggi il termine di polifonia, spesso associato al concetto di contrappunto, è venuto a significare rigore, ossequio a norme rigide, vincolo della fantasia, la polifonia di quei primi secoli significava invece prospettiva aperta su spazi non ancora esplorati, ricognizione in regioni non ancora ‘geograficamente’ delimitate. Con l’Ars Nova il processo d’acquisizione di una coscienza polifonica è ormai avanzato, i basamenti delle svettanti costruzioni vocali fiamminghe sono già posati, ma le regole che dettano la condotta delle parti, per quanto configurate e definite, mantengono ancora valore di invenzione e di scoperta, facendo presagire solo in misura limitata la scolastica che sarebbe seguita. Certamente un Rondeau come quello che Machaut inizia con i versi «Ma fin est mon commencement et mon commencement ma fin et teneure vraiment...» - dove occorre affidarsi al testo cantato per sciogliere l’enigma di una composizione nella quale la parte superiore ha la stessa melodia del tenor, ma cancrizzante (letta cioè in senso inverso dall’ultima nota alla prima) mentre il contratenor si svolge in due sezioni dove la seconda corrisponde alla rilettura a specchio della prima – un Rondeau di questo tipo presenta aspetti ancor più cerebrali dell’arte di Ockeghem; ma non è lì che Machaut si lascia individuare. Il senso della costruzione, addirittura il senso della percezione di regole interne al materiale, in Machaut è presente: non lo si può negare! Comunemente gli si riconosce il primato dell’adozione dell’entrata successiva delle voci, come avviene nel mottetto a 4 voci Felix Virgo dove si stabilisce un chiaro rapporto imitativo tra quadruplum e motetus; per non parlare dell’organizzazione delle parti a canone vero e proprio nella tripla ballata Sanz cuer m’en vois. Ma tali formulazioni non codificano ancora nulla di definitivo: il culto della forma non assume mai dimensione feticistica e, anche quando la complessità della scrittura inserisce direttamente il registro della percezione mentale del fatto musicale, non vincola mai il compositore a soluzioni permanenti.

    Innanzitutto il tipo di scrittura «oculare», che in questa musica sembrerebbe precedere la concezione acustica, non esaurisce mai da solo l’interesse del compositore. In una lettera del Veoir Dit à Péronne egli scrive: «Mio dolce cuore ho composto il rondel dove figura il vostro nome. Ve l’avrei fatto pervenire tramite questo messaggero, ma non ho ancora avuto modo di sentirne l’esecuzione e non è mio costume divulgare le mie opere senza averle ascoltate». Osservazione preziosa che ci mostra l’esatto parallelismo dei due registri d’ascolto in una composizione – qui Machaut si riferisce al Rondeau «Dix et sept, cinc, trese» dove i numeri stanno al posto delle lettere del nome di Péronne anagrammato – una composizione per di più dichiaratamente compiaciuta di svolgere un discorso cifrato. In secondo luogo l’intuizione di un’organizzazione possibile al di là dell’apparenza acustica non significa mai resa dell’artefice a un ordine preesistente capace di esautorarlo. Tale ordine detta le sue regole ma non le impone, cosicché in Machaut non è mai dato di veder ripetuta la stessa soluzione formale. La concezione cosmica della musica, che i teorici – anche quelli dei secoli successivi – non mancano di proclamare, è di fatto ormai superata dall’interesse per la forma sonora e Machaut vive in pieno questa «scoperta». A Péronne egli può scrivere ancora: «Vi mando un rondel in musica, di cui tempo fa composi le parole e il canto. Recentemente vi ho aggiunto tenore e controtenore», che mostra il prolungamento nel cuore dell’Ars Nova di ciò che già conoscevamo della polifonia del XIII secolo: combinazione di linee concepite indipendentemente l’una dall’altra e in tempi addirittura diversi. Ma l’apparizione degli accordi di tre suoni e, nelle ballate soprattutto, il chiaro orientamento verso la tonalità moderna, sono tutti elementi che stanno ad indicare il processo di superamento degli schemi mentali antichi.

    La premessa dei traguardi raggiunti sta in gran parte senza dubbio nella condizione sociale di chierico, per molti anni al servizio del Re di Boemia, che egli seguì nella sua vita avventurosa, e in seguito alla frequentazione de alcuni dei protagonisti della vita politica francese. Contatti che gli procurarono cospicui benefici; il canonicato a Reims soprattutto, da cui gli venne l’indipendenza, che per Machaut si esprimeva in primo luogo nel giudizioso distacco dagli avvenimenti. Tutta la sua vita appare come abile scalata a una condizione di privilegio in cui rinchiudersi a coltivare la propria arte in piena libertà. A questo punto non c’è più confine tra pubblico e privato e l’amore del vecchio poeta sessantenne per la giovane Péronne può diventare oggetto di trasfigurazione nel Veoir Dit, vasto romanzo in versi in cui la narrazione si completa con una serie di lettere in prosa tra i due amanti, alternate a componimenti lirici e musicali. Questo in quanto Machaut si innesta sulla tradizione precedente che aveva visto i trovatori nel doppio ruolo di poeti e di musicisti. Ma anche questa dipendenza da un modello di arte anteriore ha una doppia faccia e, come la preservazione di un aspetto arcaico quale la concezione lineare del comporre non impedisce l’acquisizione del moderno senso dell’armonia, così l’unificazione in una sola persona della funzione poetica e di quella musicale non si presenta ormai più nei termini precedentemente conosciuti. Per un verso egli può essere considerato «l’ultimo dei trovatori», ma – costatando nel XIV secolo l’ormai completa dissociazione tra musica e poesia in sistemi espressivi che tendono ad occupare spazi sempre più autonomi e che, nel caso della musica soprattutto, suppongono una tecnica specifica altamente elaborata – egli vive questa condizione in termini affatto nuovi. Machaut scriveva i suoi versi senza pensare sempre alla musica che li avrebbe accompagnati: dal Veoir Dit apprendiamo che molte opere sue ebbero origine dapprima come pura poesia e che furono messe in musica più tardi su richiesta di Péronne. Egli era dunque poeta e musicista, e non esattamente poeta-musicista. Inoltre dell’esperienza poetico musicale trobadorica viene a cadere in Machaut l’aspetto della comunicazione orale ancora vivo intorno al 1300, dove il testo si compiva nella voce di un recitante che lo salmodiava secondo uno schema melodico abbastanza semplice, dove quindi l’enunciato era indissociabile dall’enunciazione (Zumthor). Il testo poetico musicale, precedentemente in funzione di oggetto uditivo suscettibile quindi di mobilità e anche di trasformazione, acquista con Machaut un peso specifico diverso: diventa oggetto fabbricato, si fissa in modello inderogabile dalla sua condizione di fatto scritturale, visuale. Se nel XIV secolo sappiamo che era frequente l’abitudine di ornare o semplificare la melodia durante le esecuzioni, Machaut vi reagisce energicamente e invita Péronne a imparare la ballata «Nes que on porroit» senza aggiungervi né togliervi nulla.

    Machaut è preoccupato di fissare il testo poiché egli pensa già organicamente, non più in termini di comunicazione orale bensí in termini di libro. In Machaut viene esaltata l’individualità del testo e delle circostanze concorrenti alla sua concezione: il Veoir Dit ad esempio è un’opera di fondamentale importanza non solo in quanto si svolge in dimensione autobiografica – mentre il medioevo, sappiamo, ignorava quasi totalmente l’autobiografia – ma soprattutto in quanto vi si racconta e vi si può seguire la gestazione di un libro in tutti i suoi particolari poetici e musicali. Attraverso il libro è l’individuo che tende a diventare unico termine di misura della realtà, la quale vede attenuarsi i propri confini. Ciò che già era trasfigurato nell’ideale dell’amor cortese, nella sua poesia raggiunge sfere iperboliche: l’allegoria si incontra con il vissuto, le figure della «vie intérieure» (fortuna e speranza) compaiono come personaggi di vita di corte, i dati autobiografici sono spesso sottratti all’immediatezza per divenire, attraverso i filtri dell’eloquenza e della riflessione sull’agire poetico, il supporto di operazioni squisitamente letterarie. Allo stesso modo – come la figura della dama lascia spesso leggere in trasparenza la figura della Vergine e come il poeta non esita a confessare nel Veoir Dit il bacio dato a Péronne durante la messa («Quand on dist: Agnus dei, Foy que je doy à Saint Crepais, Doucement me donna la pais») – sacro e profano saranno elementi sempre più interdipendenti nella sua musica. Se il mottetto era già avanzato nell’evoluzione che da austero e serioso l’aveva visto acquistare leggerezza sotto l’influenza della canzone popolare, la forma della doppia e della tripla ballata è un’invenzione sua derivata appunto dal mottetto, dove la politestualità (il principio di voci che corrono parallele intonando testi diversi) apre la prospettiva di riunire due o tre diversi testi di ballata in un’unica composizione, a sua volta ovviamente riscattata a modello dotto. Desiderio di costruzione, di geometria quindi, che gli permise di rappresentare dell’Ars Nova l’aspetto più ingegnoso, più floreale. Tutto ormai in questa costellazione di musicisti tormentati dalla febbre della varietà, della ricerca combinatoria moltiplicata nelle possibilità grazie a valori più brevi (fino alla minima) acquisiti nella durata della note («Gaudent brevitate moderni», costatava un teorico dell’epoca), tutto concorreva a una concezione della musica sempre più autonoma. Nella politestualità del mottetto, e perfino della ballata, ormai non si poteva parlare certo di ossequio della musica alla poesia.

    E alla fine del secolo sarà perciò Eustache Deschamps – l’allievo prediletto di Machaut al quale come a tutti i poeti che seguiranno non sarà più consentito di essere nel contempo musicista – a distinguere la «musica naturale» del linguaggio dalla «musica artificiale» del canto e degli strumenti. È indubbio che Deschamps tenesse presente nella sua considerazione gli estremi raggiungimenti del maestro: l’Hoquetus David in primo luogo il quale, oltre a rappresentare il momento culminante delle capacità combinatorie dell’isoritmia, nell’uso esasperato della tecnica a singhiozzo dell’hoquetus cancellava ogni traccia di melodia, né più né meno di quanto abbiamo visto fare in tempi recenti dalle tecniche puntillistiche. Inoltre l’Hoquetus David è quasi sicuramente una composizione strumentale e non è un caso che, rappresentando il vertice di un’evoluzione, esso marchi deliberatamente il distacco dalla parola. Ed è doppiamente significativo il fatto che tale distacco dalla parola sia stato promosso proprio da un musicista che era insieme poeta, costretto quindi a vivere in prima persona e consapevolmente questa dicotomía. Consapevolezza che non a caso portò Machaut a concepire quella che è considerata l’opera capitale del XIV secolo, la Messe de Nostre Dame. Composizione di vasta dimensione, la messa è sovrastata da un disegno preminentemente musicale che mira e raggiunge l’unità. Non solo nessun autore precedentemente aveva immaginato una composizione articolata in più brani, ma nessuno aveva ancora osato prima di lui musicare per intero in polifonia l’ordinario della messa. Le messe precedenti (generalmente a 3 voci), – come quelle di Tournai, di Barcellona, di Tolosa, di Besançon – sono costituite di frammenti di diversa provenienza, di vari autori e di diversi stili. La messa di Machaut porta invece la chiara impronta di un solo artefice, il quale senza dubbio vi realizzò la parte più ambiziosa e audace del suo progetto individualistico. L’opera presenta infatti deliberate caratteristiche di omogeneità che non solo si esplicano nelle proporzioni, nel trattamento unitario a 4 voci e nella scelta del modello polifonico (Kyrie, Sanctus, Agnus Dei e Ite missa est nella forma del mottetto isoritmico; Gloria e Credo in quella del conductus), ma che sono pure sottolineate dalla funzione assunta da una serie chiaramente profilata di elementi melodico-ritmici distribuiti in tutti i brani, i quali da una parte svolgono un ruolo tematico nel senso che sarà chiarito dalla musica posteriore e dall’altra prefigurano addirittura la concezione ciclica (se non proprio del Leitmotiv) di molti secoli dopo. È anche nella messa che Machaut sviluppa al punto estremo il principio di un’espressività di diretto coinvolgimento. Già nei momenti di più elucubrata sperimentazione il poeta musicista non aveva perso di vista l’esigenza di una caratterizzazione poetico musicale trasparente all’ascolto. Nella doppia ballata, in cui la prima voce intona «Quand Theseus» mentre la seconda sovrappone il testo «Ne quier voir», il ritornello assiste al ricongiungimento delle due voci su un solo testo («Je voy asses, puis-que je voy ma dame») con risultato di alta concentrazione espressiva dopo le combinatorie divagazioni politestuali. Nella messa le irrinunciabili fioriture in hoquetus (Amen, ecc.) e i procedimenti formali, dettati dall’esigenza di innalzare al mistero della fede un monumento come una cattedrale gotica percorso da eccelse tensioni, trovano risposta nella perfetta e intenzionale omoritmia di «Et in terra pax» e di «Ex Maria Virgine», punti in cui il discorso, di per sé già trasparente nella scansione verticale del Gloria e del Credo, raggiunge il culmine, affidando a meditate combinazioni armoniche il compito di significare la partecipazione emotiva all’evento. La messa di Machaut, rifacendosi espressamente al trattamento del tenore liturgico ereditato dall’Ars Antiqua, sviluppando nei termini più estremi i procedimenti dell’Ars Nova e aprendo il discorso a formulazioni espressive che saranno meglio comprese in tempi posteriori, non solo realizza quindi il principio programmatico di «musique qui les chants forge en la vieille et nouvelle forge», ma rappresenta probabilmente il primo di quei momenti in cui la musica occidentale, a contatto con una problematica trascendente (Monteverdi, Vespro; Bach, Messa in si min.; Beethoven, Missa solemnis; ecc.), osò e riuscì a creare una sintesi delle conoscenze musicali del passato e del presente in ambiziosa lezione onnicomprensiva. Un vasto orizzonte si apriva dunque sotto lo sguardo di Machaut, il quale non poteva con ciò non meditare il distacco dai contemporanei ai quali era certo di sopravvivere. E in una concezione individualistica sempre più pronunciata, sorvegliando meticolosamente la copiatura, l’illustrazione, la notazione, la rilegatura dei codici in cui personalmente volle riunire la sua opera omnia poetico musicale, egli ambiva ormai a parlare al di là del tempo, cosciente dei privilegi che la natura gli aveva elargito:

    Io, Natura...

    Vengo a te Guillaume

    che ti formai a parte

    affinché tu potessi formare

    nuovi e piacevoli detti amorosi.