I PRIMI PASSI DI BEETHOVEN A VIENNA
Le prime sonate per pianoforte di Beethoven (op. 2) risalgono allo stesso anno (1795) in cui, presentando come biglietto di visita il Concerto in si bem. magg. op. 19, egli faceva la sua apparizione al Burgtheater in tre attese serate che immediatamente gli aprirono le porte delle dimore di personalità influenti, di coloro che sarebbero diventati i suoi diretti sostenitori e degli editori che già si contendevano le sue primizie.
Burgtheater, Wien
Come l’op. 19 rientra ancora nell’orbita mozartiana, così le sonate dell’op. 2 si muovono sul versante settecentesco e non è un caso che entrambe siano state dedicate ad Haydn.
Si tratta tuttavia di opere che già guardano avanti in modo protervo e se non fosse diversamente non si capirebbe la sensazione memorabile che suscitò nel pubblico viennese la venuta del giovane maestro di Bonn. Di settecentesco in questi lavori sussiste soprattutto la trasparenza di una materia i cui tratti sonori si imprimono nella struttura con un vigore capace di cancellare ogni residuo di leziosità.
Fu il periodo del maggiore impegno di Beethoven quale pianista esecutore, teso alla conquista di un pubblico e di una capitale non ancora domati, e perciò da assecondare con cautela. Lo rivelano i cicli di variazioni su arie di operisti italiani che rispecchiano la pratica improvvisatoria del musicista, sistematicamente chiamato in occasione di ogni sua esibizione a variare i temi alla moda provenienti dall’esperienza del tempo maggiormente risonante, cioè dal teatro operistico. Senza dubbio queste composizioni rappresentano di Beethoven il momento di più avanzata integrazione nella società d’allora di cui condivideva perfettamente il gusto italianeggiante, al punto di darsi subito da fare per diventare a Vienna allievo di Salieri.
In quel decennio di affermazioni Beethoven dunque, il musicista che si sarebbe imposto come artista ribelle e profondamente tedesco di concezione, accettava con buona pace la preminenza internazionale del gusto italiano.
E qui è d’uopo considerare come sia errato circoscrivere il riferimento italiano alla sola scelta del tema. È evidente che Beethoven svolgeva le sue variazioni su temi di Paisiello o di Salieri in un modo a cui nessun musicista italiano di ormai declinante tradizione strumentale avrebbe potuto mettersi all’altezza. Chi però nella variazione in minore del ciclo su “Nel cor più non mi sento” (lo stesso tema di Paisiello sfruttato da Paganini) si ostina a vedere il segno premonitore di una sensibilità romantica misconoscendo il suo perfetto apparentarsi con i toni languidi e lacrimevoli del filone operistico inaugurato da La Buona Figliola di Piccinni, rinuncia a cogliere il grado di appropriazione della tradizione italiana a cui il musicista era arrivato.
Antonio Salieri
Certamente l’adeguamento al modello italiano costituisce un’esperienza chiusa e preliminare, da cui Beethoven si svincolerà come la società del tempo si sarebbe liberata dall’ancien régime. D’altronde la stessa tecnica della variazione condotta sulla scorta del precedente mozartiano dove predomina l’elegante fluidità del gesto e la componente esornativa, sarebbe stata ben presto superata dal linguaggio ruvido delle prime sonate.
Eppure non tutto di questo Beethoven poco più che ventenne è retrodatabile: le Variazioni sull’aria «Venni amore» di Vincenzo Righini non solo si presentano nell’estensione ambiziosa di un’architettura a 24 numeri che rimanda immediatamente alla mole delle 33 Variazioni su un valzer di Diabelli della maturità, ma, nella capacità di operare sul tema con interesse analitico, guardano decisamente al futuro di un’espressione sciolta dai lacci delle normative che riconduce il potere formante a esclusivo progetto individuale. Non per niente, di fronte alla varietà di scrittura, agli assaggi contrappuntistici, allo stravolgimento dei normali stilemi, si sarebbe tentati di dar ragione a coloro che sostengono l’attribuzione di tale stesura a una fase più tarda.
È comunque accertato che la loro composizione risale al 1790, modellate in funzione di una costruzione a tasselli interdipendenti e alternati secondo necessità di contrasto, a produrre scatti e balzi di registro, mutazioni ritmiche, impennate di sorprendente umorismo.
La verifica del sicuro orientamento assunto da Beethoven nel breve volgere degli anni della sua affermazione è leggibile nelle Dieci variazioni sul tema “La stessa, la stessissima” dall’opera Falstaff di Antonio Salieri (1799) che, pur essendo pagine rivelatrici, sono rimaste marginali nel repertorio concertistico.
Se negli esercizi su testo metastasiano a cui lo sottoponeva il maestro italiano ci si può rendere facilmente conto del carattere ormai esotico in cui al musicista appariva lo stile vocale e la maniera italiani, nelle variazioni a cui è sottoposto il tema di Salieri viene investito da un progetto d’elaborazione capace di ricavarne spunti disparati per un discorso che in taluni punti tocca quei limiti allucinati a cui ci abituerà l’esperienza beethoveniana più matura. In particolare gli aspetti leziosi del tema italiano vengono annullati tramite un’operazione di smembramento in funzione di una riformulazione capace di trasformare l’evasività di quei tratti in tocchi di gelido umorismo, nella capacità di trasformare un giocoso botta e risposta in un discorso aforistico svolto su piani trascesi di evocazione.