IL BORIS OLTRE LA SCENA
«L’artista crede nel futuro perché vive nel futuro», in questa frase contenuta in una lettera alla fedele amica e protettrice, Ludmila Scestakova è racchiuso con somma preveggenza il destino di Modest Mussorgski. È difficile in tutto l’Ottocento (secolo che, dati i presupposti romantici, aveva tutte le premesse per dare la luce ai geni incompresi) trovare personalità d’artista più sfuggente alle categorie dell’epoca in cui visse.
Basti dire che il capolavoro a cui il suo nome è legato, il Boris Godunov, non solo sulle scene russe ebbe vita effimera durante la travagliata vita del compositore, ma, quando più tardi riuscì ad affermarsi nel repertorio, poté diffondersi solo grazie alla revisione che Rimsky-Korsakov approntò nel 1896, una versione che serve ad accreditarlo ancor oggi presso il pubblico dei teatri d’opera i quali solo con reticenza usano ancora ammettere la possibilità di ricorrere all’originale.
L’originale mussorgskiano differisce dalla versione di Rimsky, più opulenta e coloristicamente divagante, non solo per essenzialità e crudezza di strumentazione, ma anche e soprattutto per una diversa concezione drammatica evidente soprattutto nel mutato ordine delle due scene finali: la morte di Boris che Rimsky fa seguire alla rivolta del popolo nella foresta di Kronry sposta l’equilibrio del capolavoro verso il dramma individuale dello zar, mentre la voce del popolo ribelle con cui termina la versione originale ha la capacità di assicurare all’opera la sua possente dimensione epica.
Nikolaj Andreevič Rimskij-Korsakov
Che l’intervento di Rimsky-Korsakov tendesse a una sistemazione della partitura in funzione delle capacità d’assimilazione del pubblico d’allora è fuori dubbio, come lo è il fatto che il Boris, nella storia della musica, è sicuramente uno dei rari casi di opera nata in anticipo di quasi mezzo secolo non solo rispetto al gusto ma pure rispetto alla composizione sociale dello stesso pubblico, che per lui non poteva certo essere solo l’élite borghese frequentatrice dei teatri imperiali.
Modest Mussorgski, Boris Godunov, Prologo
Che il Boris rappresenti nella storia dell’opera il primo dramma di popolo posto sulla scena di un teatro d’opera è fuori discussione. Più discutibile lo è il fatto di misurare la sua «modernità» nell’aspetto precorritore della vicenda che ha coinvolto il popolo russo con la rivoluzione d’ottobre. È vero che il 23 settembre 1918 nel Teatro accademico di stato di Leningrado il Boris fu salutato da un pubblico osannante composto di ufficiali dell’armata rossa che alla fine intonarono insieme a Scialiapin un canto rivoluzionario, ma è anche vero che, in quegli anni caldi, qualsiasi testimonianza artistica era tenuta a fare i conti con la ragion politica, al punto che si ricorda una rappresentazione di Tosca data a Leningrado nel 1924 con il titolo In lotta per la Comune, dove l’azione era spostata nella Parigi del 1874 e con Cavaradossi nelle vesti di un eroe del proletariato, il tutto sulla stessa alata musica pucciniana che era servita a mandare in visibilio la piccola borghesia delle capitali occidentali. A condurre all’interpretazione «populista» del capolavoro fu l’episodio del rifiuto di rappresentazione opposto a suo tempo dalla commissione artistica dei teatri imperiali.
Feodor Scialiapin in Boris Godunov
Ora è da rilevare che, nella prima versione (1868-69) rifiutata, il popolo non solo aveva una parte assai meno rilevante della successiva, ma l’opera si concludeva con la morte di Boris (esattamente come nella revisione di Rimsky); mentre l’unica versione bene o male rappresentata (1874) fu la seconda e definitiva. In realtà il comitato di lettura dei teatri imperiali più che una commissione di censura era un organismo giudicante in base a criteri estetici, il quale per ragioni abbastanza ovvie aveva dato responso negativo a un’opera che andava decisamente oltre i canoni del gusto corrente. Una delle principali obiezioni riguardava infatti la mancanza di una parte femminile importante: e sappiamo infatti che l’episodio polacco con l’introduzione del personaggio di Marina appare solo nella versione definitiva e sicuramente come replica al rimprovero degli esperti pietroburghesi. Alla luce di questi fatti la revisione di Rimsky va vista semplicemente come il tentativo, ampiamente riuscito, di adattare la concezione mussorgskiana al grado di comprensione del pubblico d’allora in un’operazione unica nel suo genere, considerando che a cader vittima di rielaborazioni più o meno traditrici sono quasi sempre stati capolavori ripescati da epoche lontane, non già dal presente. V’è poi da considerare la tipologia teatrale del lavoro in cui il compositore ha in un certo qual modo privilegiato lo statico impianto oratoriale.
Il'ja Efimovič Repin, Ritratto di Modest Mussorgski, 1881
Se l’opera di Mussorgski è un capolavoro lo è senza dubbio in quanto musica ma non ugualmente in quanto opera di teatro, valendo per essa lo stesso giudizio che si impone sul merito dei drammi wagneriani. Solo non ammettendo che la diffusione secolare del collaudato modello operistico italiano si basava su principi assoluti di verità drammatica, si può affermare il contrario. In realtà fu anche questa la ragione degli interventi di Rimsky-Korsakov, abusivi fin che si vuole ma sintomatici rispetto a un capolavoro di dimensioni ideali enormi, la cui efficacia risultava misurabile solo al di là della dimensione scenica.