IL DEMOCRATICO EDVARD GRIEG
Vi sono artisti la cui fama vale come una rivincita. È il caso di Edvard Grieg. Si pensi a come lo giudicava Debussy ad esempio, il quale non si accontentava di distruggerlo sul piano estetico; si accaniva anche contro la sua persona. “Ho potuto vedere il signor Grieg … Di faccia ha l’aria di un fotografo geniale; di schiena, la maniera di portare i capelli lo fa sembrare a quelle piante chiamate soleil care ai pappagallini e ai giardini che fanno l’ornamento delle stazioni di provincia”.
In verità il pubblico aveva già da tempo reso giustizia al compositore norvegese e gliel’avrebbe resa ancor più dopo la morte, se è vero che in Germania, durante la prima guerra mondiale, il suo editore fu indotto a ristampare su pressione del mercato la sua opera pianistica in una “Kriegausgabe”, in un’edizione di guerra autarchica su carta mediocre e senza copertina. Maestro del pezzo lirico pianistico, Grieg scelse in vita di svolgere una funzione di musicista in stretta simbiosi con quella parte di società estranea agli ambiziosi progetti avveniristici di un’arte da “fine del mondo” come si sviluppò sul verbo wagneriano. Egli si fece carico dell’espressione dell’intimità domestica, dei sentimenti di un privato umile e pago della sua riservatezza. Nella storia della musica dell’Ottocento Grieg occupa una posizione eccentrica, anche in relazione con la marginalità del suo paese, la Norvegia. Se però guardiamo al consumo della sua musica (quella pianistica in primo luogo e tutte le trascrizioni di uso casalingo derivate dai suoi brani orchestrali) egli potrebbe vantare un primato di diffusione su scala continentale. È sufficiente guardare al di là del concerto e del teatro, dei luoghi cioè in cui la musica assume la dimensione spettacolare, per rendersi conto che la sua musica celebra una grandezza diversa, a misura d’uomo. La sua scrittura pianistica già ce lo mostra, allontanandosi dal virtuosismo atletico di scuola lisztiana per modellarsi sull’espressione diretta, scevra da pose e da atti di sfida all’assoluto.
Theodor Severin, Peer Gynt in the Hall of the Mountain King (1980)
Edvard Grieg compose le musiche di scena di Peer Gynt, poema di Erik Ibsen
Modestamente Grieg prevedeva che in cento anni la sua musica sarebbe stata dimenticata, dichiarando che il suo dovere era lavorare per il suo tempo. In verità, proprio sintonizzandosi con le esigenze più immediate del pubblico d’allora, egli gettò le basi di una fama duratura. La sua capacità fu quella di individuare una costante del sentire che, pur fondandosi sulla musica da salotto della sua epoca, poteva andare al di là del tempo. Lo dimostra l’uso ‘proverbiale’ dei suoi “pezzi caratteristici” negli accompagnamenti musicali del cinema muto. L’idea di natura che nutre il suo sentire attraverso innumerevoli pezzi ‘descrittivi’ non è quella romantica in senso stretto, fatta di mistero e di turbamento di fronte all’ignoto, bensì quella del contatto diretto, di spazi ritagliati nella dimensione dell’occhio osservante (o dell’orecchio ascoltante), padroneggiata e circoscritta nella forma chiusa del pezzo caratteristico: è il fiordo che entra in salotto, qualcuno ha scritto.
Edvard Grieg
Così dicasi del suo progetto di musica nazionale, dell’identità musicale da lui procurata alla musica norvegese. Non si trattò certo di nazionalismo fieramente rivendicato in nome di nobiltà e di grandezza ideale, ma del suo esatto contrario, cioè della ricerca di un fondamento al suo sentirsi vicino al pubblico, che al primo grado della sua esperienza non poteva che essere quello norvegese appunto, con le peculiarità della sua storia. Ciò spiega la sua vicinanza al mondo operaio (dopo un concerto dato a Copenhagen di fronte a 1500 lavoratori disse di riconoscere in quelli il suo vero pubblico) e la democraticità delle sue scelte (l’appoggio dato a Émile Zola nell’affare Dreyfus e il rifiuto di accettare una tournée in Russia durante la guerra russo-giapponese). Il mirare alla dimensione domestica non gli impediva di vedere il mondo e di sentire e agire come un umanista.