Il monumentale messaggio di Stockhausen
Dopo anni trascorsi essenzialmente nel chiuso del laboratorio elettroacustico, il silenzio religioso che alla fine degli anni Sessanta iniziò ad accompagnare le apparizioni di Karlheinz Stockhausen
sul podio direttoriale o alla consolle a riprodurre i suoni incantatori delle sue composizioni sempre più dilatate, denotava la sua crescente vocazione ad elevarsi al di sopra del pubblico comune che, forse proprio per questo e per sentirsi in compagnia di un ‘mito’, gli tributò quell’attenzione e quella stima che usava ancora negare ai meno appariscenti protagonisti della musica contemporanea.
Nelle interviste, che di conseguenza si moltiplicarono, il musicista tedesco venne ad impersonare con sempre maggiore determinazione la volontà di porsi in posizione privilegiata, giudicatrice e incontaminabile, che lo elevasse al di sopra della prosaicità della vita quotidiana, decretando una svolta significativa all’interno della ‘tradizione’ dell’avanguardia, a quel punto privata della funzione ‘guida’ che egli, insieme con gli altri importanti compagni di strada (Boulez, Nono, ecc.), per lungo tempo aveva esercitato.
Dopo Hymnen (1966-69) la tendenza della critica della musica contemporanea a misconoscere la portata dei fattori soggettivi (in favore di un’analisi prevalentemente orientata a delineare le costanti oggettive del prodotto musicale considerato nella sua materialità sonora) fu rimessa in discussione.
Non v’è dubbio che tale imponente composizione abbia rappresentato un momento chiave, non solo nel senso dell’ambiguo recupero della funzione ‘messaggio’ da parte di un autore che fino ad allora appariva immune da tale orientamento, ma pure per le conseguenze sullo sviluppo di tutta la musica contemporanea, che assisteva inerme al dissolvimento delle sue linee direttrici.
Al suo apparire la critica si trovò sconcertata di fronte al monumentale messaggio di fratellanza che Hymnen proponeva attraverso l’alchemico montaggio di inni nazionali filtrati dagli altoparlanti nel convulso magma sonoro di una musica in parte strumentale dal vivo, in parte elettronica e registrata.
Dopo tanti rifiuti da parte dell’arte contemporanea di accettare i termini più banali dei discorsi ‘impegnati’ che segnarono l’era dei Kennedy, dei Martin Luther King e di papa Giovanni, chi avrebbe osato prevedere tanta ‘ingenuità’?
Per di più in questo caso l’esclusiva considerazione dei dati puramente linguistici della composizione, data la sua natura, non era concessa: la connessione delle citazioni innodiche non poteva essere disgiunta dai materiali, per cui il processo alle intenzioni si imponeva naturalmente.
Il giudizio provocato da Hymnen imponeva alla critica di riarmarsi delle vecchie categorie, persino di quelle che implicitamente negavano le premesse stesse del suo porsi in modo antagonistico alla cultura ottocentesca, al retaggio wagneriano a cui l’ultimo Stockhausen sembrava riallacciarsi.
Ovviamente non si trattava di ricercare analogie dirette, bensì più semplicemente di affinità d’atteggiamento nell’aura sacrale restituita all’opera nel suo sottrarsi alle dimensioni commisurate alle possibilità di coinvolgimento dell’ascoltatore, qui confinato nel ruolo attonito di sottomesso correligionario di un’ideologia totalitaria, autosoddisfatta, perciò oppressiva.
La sconfinata lunghezza delle quattro parti, in termini comuni assommanti a due interi programmi di concerto combinati, tendeva infatti a porsi come valore in sé, nel senso di terrificante risposta alla disponibilità di conoscenza e di comprensione che sopravvive nella cultura occidentale proprio negli stessi termini in cui la musica “infinita” wagneriana riusciva ad asservire l’ascoltatore nell’illusione di un’esperienza liberatrice.
Da questo punto di vista Hymnen era poco meno di una sfida alle capacità di chi ancora credeva nei valori dell’arte come testimonianza dell’uomo nel tempo.
Una perfetta restaurazione wagneriana essendo impensabile, Stockhausen riuscì a riprodurre le dimensioni abnormi di quel modello rinunciando alle lusinghe del linguaggio tonale, rendendo l’ascolto ingrato come non mai nell’asprezza del suono mediato elettricamente e nella frustrazione provocata dalla troncatura sistematica delle citazioni degli inni, i cui frammenti risultano riprodotti quel tanto che basta alla loro identificazione e non oltre.
Il lento procedere dell’opera, che oscilla instabilmente tra una fede trionfalistica e la gargantuesca deformazione dei materiali, pone un sottile dilemma ai benintenzionati che pretendono di seguire il discorso fino all’ultimo compimento: la ‘terra promessa’ dissimulata in tale mostruoso messaggio di fratellanza appare con un volto tanto stravolto da scoraggiare la fede stessa nel potere dell’uomo di desiderare la propria liberazione dai vincoli terreni.