Il teatro musicale di Mauricio Kagel
Che la musica contemporanea non possa essere ricondotta a una nozione unitaria è dato per scontato.
Nemmeno quando il verbo weberniano era il solo a dettar legge era possibile nascondere le differenti motivazioni che, dietro l’asettica facciata seriale, nutrivano l’azione dei protagonisti.
In seguito i nodi sono venuti al pettine in forma di nostalgie ringalluzzite, in cui il peso del passato culturale è ritornato a far pendere la bilancia verso valori che incautamente si credevano sotterrati.
Non è il caso di parlare di involuzione di fronte alle testimonianze monumentali del tardo Stockhausen e di altri grossi nomi per i quali l’opera d’arte è tornata a risplendere sulla strada illuminata dalla categoria della ‘bellezza’ e che, rivaleggiando con l’inesauribile fascino dei capolavori del passato, si sono proposti di lusingare il pubblico con mezzi incantatori.
Tale riscoperta di valori, come affermazione di un discorso regolato da proporzioni dettate da un ordine plausibile all’ascolto, non è tuttavia riuscita a rimarginare le cicatrici prodotte dalle ormai lontane ed estenuate battaglie contro la tradizione, rimanendo iscritta in una storia memore degli sforzi compiuti in nome dell’emancipazione di una musica che si vuole commisurata alla coscienza di vivere in epoca di crisi.
Comunque essa rimane pur sempre una musica che ha voltato le spalle alle ragioni più radicali che per un certo tempo hanno preteso di guardare al ‘dopo’, al di là della distruzione dei valori convenzionali, con accanita furia sperimentalistica.
Ci si può chiedere quindi cosa sia rimasto di tale inquietudine che fu capace di sconvolgere i rituali della tradizione.
Un compositore al quale, fin dai primi tempi e inequivocabilmente, fu riconosciuta la capacità di dar forma alla condizione di tale musica del ‘dopo’ è stato Mauricio Kagel, la cui ricerca Mario Bortolotto ha eloquentemente compendiato nell’immaginosa formula della “rieducazione dei poliomielitici alla deambulazione”.
Il discorso su Kagel non può infatti essere circoscritto al semplice concetto di provocazione, che certamente la sua musica contiene tanto quanto quella di Cage, come atteggiamento che dal polemico confronto col pubblico ricava la propria energia sconcertante.
La sua musica da sempre si è posta al di là di questo rapporto tutto sommato paralizzante e diventato impraticabile di fronte ai sempre più smaliziati habitués festivalieri i quali, avendo imparato a stare al gioco, l’hanno privato di senso.
La trovata di Kagel, le gags clownesche a cui egli attinge costantemente, non sono fatti per strappare immediatamente la risata liberatoria: la reazione del pubblico è sì sempre immediata e suscitata dall’apparenza comica di quanto gli viene proposto sulla scena, ma essa è ogni volta chiamata a confrontarsi con il risvolto problematico di un’esperienza che, vivisezionando l’atto musicale fino a ridurlo al clinico pulsare di organi dissociati, si presenta come spettacolo agghiacciante offerto agli orecchi e agli occhi del sopravvissuto risvegliato dopo una catastrofe planetaria.
Gli esecutori che sfilano nelle stazioni senza sviluppo di Répertoire (1970) dell’umano conservano soltanto gli impulsi biologici di vita vegetativa, mentre la musica, che pare organizzarsi nei suoni prodotti da una sorta di armamentario di residuati bellici, risulta l’unico balbettio possibile concesso a una coscienza costretta al livello di tabula rasa, dove lo sforzo massimo, prima ancora di pervenire a una sintassi garante di comunicazione organica, ha da fare i conti con una morfologia reinventata fin nei suoi minimi elementi costitutivi.
Tuttavia nulla di questa sorta di riduzione all’Urschrei (ovviamente agli antipodi di romantici vagheggiamenti) tradisce alcunché di casuale, nel senso del ‘caso’ cageano alimentato da una saggezza pragmatica capace di concedersi agli eventi senza preclusioni.
In Kagel, al contrario, con la lucida e inesorabile perfezione del dettaglio, la sorgente sonora più rudimentale si presenta come atto di inequivocabile espressione, come fattore di una comunicazione alla quale, se non è dato di compiere la sua funzione in mancanza di un codice, è perlomeno concessa la possibilità di mimare se stessa al grado più basso della gerarchia dei valori.
In perfetta coerenza con tale principio si situa la scelta radicale che ha portato il compositore a rinunciare all’impiego dello strumentario tradizionale che, pure quando l’abbiamo visto manipolato dai musicisti con i propositi più agguerriti, è sempre stato in condizione di agire come molla di riscatto in nome dei valori convenzionali.
Di qui la sistematica sua ricerca orientata nella direzione capace di scavare oltre la nobile qualificazione dello strumento, saggiandolo nei risvolti sonori più prosaici e a volte più sgradevoli, fino a giungere all’invenzione pura e semplice di uno strumentale ritrovato fra i brandelli della vita quotidiana, sotto forma di aggeggi che, nella pretesa di riempire il silenzio con il loro disarticolato balbettio, tradiscono nel contempo l’assurdità celata dietro la porta di casa.
In questo senso la musica del ‘dopo’ proposta da Kagel non ha nulla di futuribile ma si scopre come risvolto della nostra condizione più prosaica.
Tactil (1970) ci è ad esempio presentato come un’igienica ginnastica mattutina (gli esecutori disposti disciplinatamente a torso nudo) con esercitazioni elementari che, per quanto concerne le due chitarre in particolare, insistono meccanicamente sul repertorio delle più viete figure di accompagnamento della moderna musica di consumo.
Tali ostinati, di cui il nostro orecchio non è mai abbastanza pago, nell’incapacità di collocarsi appropriatamente nello schema ritmico usuale che è loro impedito dall’azione disgiunta dei tre esecutori, servono a togliere la maschera all’abitudine quotidiana che, senza bisogno di espressa denuncia, si scopre degradata a vuoto gesto automatico.
https://www.youtube.com/watch?v=k7k7yIepfp0
L’assurdo di Kagel non si concede perciò all’evasione e nell’assenza totale di pathos, con la fredda tragicità che fa da riscontro alla vis comica, dimostra la capacità di sollecitarci nel comportamento prima ancora che nel nostro sfuggente intimo: il suo rigore non consente alibi.