ITALIA: MUSICA, SOCIETA', ECONOMIA
Storicamente ai visitatori venuti dal nord la civiltà musicale italiana ha sempre interessato per la sua apparenza organica, come prodotto leggendario di una civiltà classica, in particolare ai romantici come espressione del genio collettivo di un popolo provvisto di un senso innato della bellezza.
Per ciò che riguarda la musica l’Italia ne era la patria tout court, al punto da poter ergere la solidità della sua tradizione contro le influenze straniere senza che fosse necessario un impegno istituzionale. Ancora nell’Ottocento la musica italiana era dominante in Europa, e l’Italia, più di altri, esportava musicisti i quali, all’estero, si comportavano in modo assolutamente impermeabile alle culture che attraversavano.
Claudio Monteverdi
La tradizione musicale era radicata nel mestiere, alimentato da un secolare mercato internazionale capace di assicurare ai musicisti italiani floride prospettive di emigrazione. Il nucleo formativo poteva quindi essere la famiglia (frequenti erano le dinastie di musicisti) o le cappelle delle chiese, luogo di tradizione che si trasmetteva immutabile. Ciò spiega altresì come la musica sacra italiana oltre il Settecento si tramandasse con riferimento allo stile antico, ignorando ad esempio la riscoperta di Bach che si era affermata nel resto d’Europa. La ricerca di solennità e di sgomento che il romanticismo propugnava è assente nella musica italiana di chiesa, che invece si fa conquistare dai modi brillanti ed esteriori dell’operismo al punto da apparire profanatoria alle orecchie dei puristi.
Giovanni Pierluigi da Palestrina
Una situazione che perpetuava modi secolari di intendere la musica e poco aperta alle influenze straniere non ne veniva sollecitata per quanto riguarda il perfezionamento del mestiere. Se si considera che l’Eroica di Beethoven fu eseguita per la prima volta in Italia cinquant’anni dopo la sua creazione si può immaginare quanto poco le orchestre italiane fossero preparate ad affrontare le difficoltà delle partiture sinfoniche del tempo. Le punte di talento e di estro di strumentisti che accanto a quello di musicista esercitavano un altro mestiere a un certo punto non erano più sufficienti a garantire il livello di qualità.
Antonio Vivaldi
La vita del musicista in Italia dipendeva totalmente dal mercato e non conobbe lo spazio di protezione che nelle capitali europee era dato dalle grandi corti. In Italia anche i più piccoli centri sviluppavano la propria attività musicale ma spesso in situazioni precarie. La pressione dei costi riguardava tutti, dal compositore d’opera che ancora all’inizio dell’Ottocento poteva essere chiamato a comporre un’opera seria in due settimane, ai cantanti chiamati a impararla in quindici giorni e a cantarla quattro e perfino cinque volte la settimana fino a sfiancarsi la voce, per non parlare dei lunghi viaggi da sostenere per assicurarsi i posti di lavoro. Negli anni Quaranta ad esempio molti musicisti di Bologna andavano a suonare fino ad Atene e a Costantinopoli. In seguito, con lo sviluppo dell’America meridionale, verso la fine del secolo con maggiore efficienza imprenditoriale intere compagnie venivano esportate d’inverno a Buenos Aires e in altre città per allestimenti operistici.
Gioacchino Rossini
Nella seconda metà del secolo, pur mantenendosi il mito del primato musicale nazionale, l’Italia subì più direttamente le influenze straniere (francesi soprattutto), ma tale apertura fu accompagnata dal decadimento delle strutture della vita musicale: le fabbriche degli strumenti non erano più concorrenziali, i metodi scolastici venivano importati dalla Francia e dalla Germania, la stampa della musica vi risultava più cara. L’apertura europea dunque ci fu, ma avvenne in modo eclettico come dimostra la “giovane scuola” (Puccini, Mascagni, Leoncavallo, Giordano, Cilea, Catalani, Alberto Franchetti), capace di mescolare raffinatezze di scrittura e delicatezza di sentimenti a incertezze e cadute di gusto che le impedivano di allinearsi coerentemente al resto della cultura musicale europea.
Giacomo Puccini
Tale realtà è stata meticolosamente indagata da John Rosselli (Sull’ali dorate. Il mondo musicale italiano dell’Ottocento, Il Mulino, Bologna 1992), in cui si ricorda come a Milano intorno al 1890 si potessero stimare a tremila le persone che si guadagnavano da vivere con l’opera e il balletto, senza contare l’indotto a livello commerciale e turistico. La sua ricerca è stata esemplare per il modello metodologico in grado di aprire nuovi orizzonti per la comprensione di un esteso capitolo di civiltà italiana per quanto riguarda il modo in cui risulta radicato nella società.