Karajan l'immortale
Il ruolo assunto da Herbert von Karajan (1908-1989) a partire dall’ultimo dopoguerra fu unico, quello del direttore d’orchestra per eccellenza al di fuori del tempo, facente parte di un olimpo, al di sopra della realtà.
In questo senso egli rappresentava l’artista della musica rispondente all’immagine del direttore d’orchestra voluta dal pubblico (grande, supremo, inarrivabile).
Egli fu il personaggio della musica che meglio rispondeva al bisogno di divismo ancora agente nella realtà moderna, più che mai a livello degli interpreti.
Nell’Ottocento infatti il divismo non concerneva solo gli interpreti ma anche, se non soprattutto, i compositori (si pensi a Wagner, a Brahms, a Verdi). A causa dell’evoluzione avvenuta nella musica moderna il compositore ha perso il suo statuto di divo: alla sua musica sono venute a mancare le premesse per diventare popolare.
Il bisogno di idealizzazione dell’artista, rimasto integro, nella misura in cui la musica amata dal pubblico della nostra epoca è la stessa che entusiasmava il pubblico di ieri, in questa situazione ha in un certo senso doppiamente divinizzato l’interprete, accolto non in quanto tale ma come una specie di reincarnazione di un autore o degli autori del passato.
In questo ruolo si sviluppò la carriera di Toscanini e quella di Furtwängler, e in questo ruolo si è svolta quella di von Karajan, il quale, immedesimandosi nelle interpretazioni di Beethoven, ne ha addirittura assunto anche il sembiante. Il volto corrucciato e burbero, ossessivamente riprodotto sulle copertine dei suoi dischi, ha fatto tutt’uno con il busto severo dell’iconografia beethoveniana.
Karajan divinizzato dunque che, per essere completamente tale, aveva bisogno di un tempio. Questo è stata la Filarmonica di Berlino, che egli diresse ininterrottamente per trent’anni. Ciò era sicuramente un primato nell’epoca frenetica dei jet, capaci di portare in un batter d’occhio i direttori d’orchestra da un capo all’altro del pianeta, artisti chiamati a rimanere al massimo un quadriennio alla testa di un complesso sinfonico, legando ormai la loro immagine al cambiamento e alla novità.
Von Karajan legò invece la sua immagine alla stabilità, mantenendo in vita una funzione di altri tempi, quella del Generalmusikdirektor, non solo di un direttore d’orchestra, ma di un capo della musica di una città, per non dire di un paese, una razza quasi in estinzione.
Sviluppando grandi doti di organizzatore Von Karajan era un uomo della tradizione. Egli seppe però rinvigorirla utilizzando i mezzi della moderna tecnologia, il disco soprattutto, ma poi anche il film e la televisione. Attraverso il disco egli estese enormemente l’impatto della propria immagine, e quindi il suo potere organizzativo oltreché artistico, al di là del mondo tedesco in cui crebbe e in cui inizialmente si trovò circoscritto (non dimentichiamo che aderì al nazismo e che la prima fase della sua carriera si svolse sotto Hitler e con la benedizione dei suoi gerarchi, tanto da essere inserito nel dopoguerra dalle autorità alleate in un programma di denazificazione).
Abbinata al disco la sua figura troneggiò dagli anni Cinquanta in poi, anche grazie alla stabilità del rapporto con i Filarmonici di Berlino, esperienza unica per un direttore d’orchestra moderno, che lo innalzava su tutti gli altri.
Certamente il rapporto con il disco non era dato senza conseguenze. Queste furono la precisione, la nitidezza delle linee, la levigatezza, la lucentezza sonora, cioè quegli aspetti legati alle possibilità tecniche di riproduzione che alla lunga sono diventate categorie interpretative, trasferite dal disco alla sala da concerto.
In questo senso Von Karajan fu certamente il capostipite di quella generazione di interpreti – al di là della bravura, dell’intelligenza e della raffinatezza- in qualche modo asettici e artificiosi. Con un vantaggio rispetto ai più giovani, che in lui agiva ancora la profondità della tradizione sinfonica tedesca, severa, arcana fino ad assumere valenza cosmica, che con la sua scomparsa diventò definitivamente passato.