• Diario d'ascolto
  • 4 Febbraio 2022

    L'ESPERIENZA DI CATHY BERBERIAN

      Carlo Piccardi

    Chi ha avuto la fortuna di assistere ai recital di Cathy Berberian (1925-1983) si sarà reso conto di come ciò equivalesse a una pretta fenomenologia della comunicazione musicale. In tutti i sensi. Innanzitutto nel senso più comune della verifica delle capacità di un interprete di stabilire col pubblico un rapporto di stretta interdipendenza, sorvegliato in ogni momento del suo sviluppo, mutevole quel tanto che basta a rilanciare l’interesse, dosato quel tanto che serve a manifestare le scelte di un gusto infallibile. In secondo luogo nel senso di ripensamento della stessa prassi concertistica, liberata da ogni residuo di riverenza verso la tenace consuetudine del rito culturalistico ereditato dall’Ottocento idealista.

    È fuori dubbio che, soprattutto a quest’ultimo risultato, la cantante americana sia pervenuta attraverso la stessa presa di coscienza che fin dagli inizi della sua carriera la condusse a porsi al servizio delle tendenze più avanzate della musica contemporanea, scoprendo, nelle vie battute verso obiettivi alternativi al normale concetto di canto, non solo inedite possibilità d’impiego della voce ma anche la disinvoltura di un atteggiamento che la cristallizzazione del ruolo professionale dell’interprete ha pressoché soppresso in  epoca moderna. In questo senso, nel senso dell’emancipazione dell’interprete dai vincoli e dai dettami rappresentati dalla composizione scritta, non esiste soluzione di continuità tra l’esperienza di Cathy Berberian sul fronte della musica contemporanea e la sua riscoperta dei repertori del passato ai margini della storia della musica. 

     CATHY 1

    Con tutte le opportune differenze del caso, la responsabilità dell’assunzione di un ruolo attivo dell’esecutore accanto al compositore è presente in ugual misura sia nella scrittura ‘aperta’ dei contemporanei compositori, sia negli adattamenti vocali di musiche celebri con i quali interpreti di non meno valore usavano affermare presso il pubblico d’allora la portata della loro funzione estesa assai più di quanto oggi non si usi ammettere. Perlomeno le ‘parodie’ con cui Cathy Berberian riusciva a divertire il pubblico moderno servono a tratteggiare la prospettiva sociale in cui agirono e spiccarono i grandi compositori del passato. Al di là dell’identificazione di un momento storico nel recital che la cantante spiritosamente intitolava Second Hand Songs (canzoni di seconda mano appunto), si può cogliere però un più profondo momento di verità capace di mettere in discussione il concetto di proprietà artistica come non solo ci è stato tramandato dall’Ottocento ma anche come giuridicamente è stato codificato dalla legislazione sul diritto d’autore.

     BERBERIAN 2

    Consideriamo solo la moltitudine di variazioni su temi altrui che popolano la storia musicale fin dal Rinascimento, oppure i rifacimenti a cui nel Settecento erano sottoposte le opere teatrali di vasta circolazione, sistematicamente interpolate con arie ad hoc procurate da occasionali compositori ad uso di interpreti che ne facevano richiesta per ottenere bella mostra di sé, oppure le parafrasi di Liszt, e ci rendiamo subito conto della precarietà della gerarchia che usa far convergere ogni merito creativo sul capo del compositore.

    Non è nostra pretesa ribaltare completamente il senso di tale ordine, ma ad esame più approfondito non si può ormai più negare evidenza al fatto che lo stesso significato estetico di un’opera sia strettamente determinato dal suo destino sociale e storico, dagli usi non solo, ma anche dagli abusi a cui essa fu sottoposta. Se il tema principale della Quinta Sinfonia di Beethoven poté diventare consolante melodia di canzonetta nelle trascrizioni del famigerato Silcher, la responsabilità va anche ascritta a certo facile ‘populismo’ in cui il genio di Bonn inquadrava i suoi poderosi messaggi all’umanità.

     BERBERIAN 4

    E di quanto di ciò fosse malato l’Ottocento lo indica la quantità di adattamenti che compongono la maggior parte del repertorio della Berberian, la quale li usava intelligentemente per cambiare le carte in tavola, per giocare a rimpiattino su una musica in cui non si riesce mai a stabilire dove finisce Beethoven, dove comincia Griepenkerl, dove ammicca la stessa Berberian e dove predomini il nostro atteggiamento di pubblico che, accogliendo spiritosamente un messaggio stravolto, è capace di determinare lo stravolgimento dello stesso suo significato originale.
    Per questo la sua esibizione ineluttabilmente assumeva la funzione di una lezione sulla comunicazione musicale, sul relativismo dei significati che le istituzioni depositarie della cultura ci ammanniscono: non per vocazione polemica né per accondiscendenza a istinto anarcoide, bensì per lucida consapevolezza dell’opera d’arte come prodotto sociale, la cui proprietà è di tutti e come tale è giusto che rimanga.