L'EVOLUZIONE DEL TANGO
Il tango non è una forma o uno stile di musica, ma piuttosto una concezione del mondo, come la musica gitana, come il jazz. Esso nasce alla fine dell’Ottocento fra l’umanità diseredata della capitale argentina, fra gli emigranti italiani, tedeschi e d’altri paesi d’Europa spinti dalla necessità e carichi di passato, fra i gauchos scesi da cavallo e inurbati, trascinanti nella grande città la memoria della prateria.
È l’espressione dello spaesamento e della nostalgia, della disperazione e della rassegnazione in un contrasto di sentimenti che non trova soluzione e che dallo slancio protervo cade con altrettanta fulmineità nella prostrazione.
Il tango è l’epopea di un’umanità negata, a cui è dato di ribellarsi solamente annegando il pensiero nella filosofia dell’impossibilità della speranza.
Con tale radicamento nella geografia culturale di Buenos Aires è cresciuto un tronco di esperienze musicali ancor oggi legate al vissuto, alla condizione di una società che non ha trovato ancora il suo punto di equilibrio e che è sempre alla ricerca di un punto d’approdo.
Danza, canzone, ricerca strumentale: il tango si è imposto agli argentini come un’esperienza totalizzante capace di riassumere in sé tutta la ricchezza della loro cultura e della loro maniera di esprimersi.
Non si può parlare di regola, ma non è certo casuale che le situazioni di sofferenza, di oppressione o di emarginazione quando riguardano un intero popolo trovino voce nella musica, al punto da consegnare a questa e non ad altro l’autenticità della loro espressione. Gli zigani magiari e rumeni, i gitani spagnoli, i negri dell’America del jazz, ecc. documentano situazioni che, al pari del tango in Argentina, individuano nella propria espressione musicale l’emblema della loro cultura, che nessun libro di poesia o quadro potrebbero rivelare più compiutamente.
C’è anche qualcos’altro che accomuna il tango alle esperienze citate: il loro nascere al crocevia fra i popoli, l’instabilità dei modelli culturali che vi confluiscono.
La prima grande città che accolse gli zigani (i quali di per sé già convivevano con ungheresi, valacchi e altre comunità derivandone determinate caratteristiche) fu Vienna al tempo del Congresso del 1815, la quale con ciò confermava il suo ruolo di crogiuolo di popoli, il cui risultato fu la grande musica strumentale del classicismo di Haydn, Mozart, Beethoven, Schubert. A Vienna la musica assurse ad emblema della sua cultura proprio in quanto manifestazione più di ogni altra in grado di realizzare la sintesi tra i modi ‘nazionali’ che vi provenivano dalle varie componenti dell’impero (dall’Italia, dalla Boemia, dall’Ungheria, dalla Croazia, ecc.). La stessa maniera degli zigani è all’origine dello stiramento ritmico tipico del valzer viennese.
Parigi nell’Ottocento, che fu capitale letteraria per la Francia, fu capitale europea per la musica, come luogo d’incontro di esponenti della varie tradizioni nazionali, dal polacco Chopin, all’italiano Rossini, ai tedeschi Meyerbeer e Offenbach, al russo Stravinsky, dando luogo a un’identità musicale di tipo cosmopolita.
Il jazz, che non riguarda una sola città ma l’intera nazione americana, non sarebbe pensabile al di fuori dell’interazione culturale tra la comunità negra, i bianchi, gli ebrei e tutte le altre componenti della complessa realtà statunitense. La stessa disomogeneità etnicoculturale è caratteristica di Buenos Aires: si direbbe che le condizioni che portano la musica al progresso non siano quelle che la radicano a una forte stabilità stilistica bensì a quelle che la costringono al confronto, a ripensare la propria identità, a modificarla in funzione di una trasformazione sociale e culturale continua.
Emigranti italiani in Argentina
L’Europa, col suo assetto di nazionalità stabilizzate, ha da tempo cessato di influenzare il corso della musica nel mondo. La ricchezza di storia di una città come Berlino non basta a dotarla delle prerogative per determinare l’evoluzione di una nozione musicale che è invece possibile in città addirittura prive di passato, ma dove interagiscono i vettori espressivi più disparati in conseguenza della realtà multietnica a cui deve fare riferimento. Buenos Aires ha avuto e ha ancora queste caratteristiche.
Astor Piazzolla con la sua musica ne è diventato l’emblema, anche se non ha mai fatto riferimento esclusivo alla sua città natale.
Emigrato con la famiglia a Nuova York all’età di tre anni, è là che impara a suonare il bandaneon. Quella distanza geografica ha gettato il seme di una distanza culturale, nel senso che l’immedesimazione di Piazzolla nelle forme del tango non fu mai totale e gli consentì (nel 1954) di compiere quella svolta che un porteño ignaro di ciò che capita al difuori della sua città non avrebbe probabilmente potuto fare.
Alla radice di questo processo sta lo sganciamento del tango dal canto, dalla canzone. Come canzone il tango era tenuto a garantire una linearità: spezzare la melodia significava compromettere il testo. Sciolto il tango dal canto gli è stato possibile sviluppare ciò che nervosamente si agitava nel tessuto strumentale, cioè quella frammentazione del materiale tematico, quell’angolosità delle cellule componibili e scomponibili come in un puzzle, quell’energia ritmica che non deriva da un apparato percussivo (praticamente assente nell’orchestra di tango) ma che si sprigiona dal modo in cui si confrontano e si sovrappongono le cellule tematiche diramate in tutte le parti in un continuo spostamento d’accenti.
L’immagine sonora che ne deriva accumula con ciò una tensione unica, indescrivibile, che porta la protervia e la carica isterica del modello espressivo di base a un livello d’astrazione e di universalizzazione supremo.
Carlos Gardel
Se nel 1979 il Concerto para bandoneon è nato da un normale incarico di composizione, la ricerca di nuovi rapporti consentiti dall’impiego dell’orchestra sinfonica si presenta invece come lo sbocco naturale di una scrittura che, nei confronti dell’elaborazione motivico-tematica, non deve operare un adattamento ma vi riconosce la sua stessa modalità.
Il tango di Piazzolla è già sinfonico prima di adattarsi all’orchestra sinfonica: esso è talmente indissociabile dalla concezione contrappuntistica, in cui ogni parte strumentale è legata in un rapporto di necessità senza distinzione tra voce principale e accompagnamento, che la sua versione sinfonica diventa l’esplicitazione finale di un obiettivo tendenzialmente sotteso nel suo tango ‘da camera’.
Su questa base gli è stato possibile collegare direttamente la sua esperienza alla grande tradizione musicale europea e a rompere quel rapporto di contemplazione esotica che da sempre investe il tango argentino. Se il tango di Gardel ci appare esotico in quanto documentante una realtà a noi lontana, il tango di Piazzolla pulsa direttamente come espressione della nostra stessa realtà. La sua variante sinfonica in questo senso conta tanto quanto quella del suo ritrovare il canto con Milva, della sua capacità di inserirsi nel filone del jazz con Gerry Mulligan, del suo spaziare meditativo col Kronos Quartet.
Astor Piazzolla e Gerry Mulligan in concerto
Certamente la sua esperienza testimonia una di quelle operazioni che si ripetono nella storia, del popolare che feconda la tradizione colta, come fu la maniera zigana rivisitata da Franz Liszt nelle Rapsodie ungheresi. In verità il paragone andrebbe fatto con Bartók e con Kodaly, poiché Liszt era rimasto a metà strada a contemplare esoticamente il mondo dei “bohémiens” in cui si sentiva coinvolto solo idealmente, mentre i moderni ungheresi, esattamente come Piazzola ha fatto, sono partiti direttamente dalle radici della loro tradizione.
Come loro in queste radici Piazzolla ha individuato le regole di un linguaggio universale, capace di superare i limiti della geografia locale, di tenersi legato alla radice per succhiare dalle origini il nutrimento, ma diramandolo in forme lussureggianti per cogliere il respiro del mondo.