L'industria musicale in Italia nell'Ottocento
La musica che arriva al pubblico non è soltanto il risultato di un processo creativo individuale ma, al di là del suo significato come manifestazione del radicamento nel contesto collettivo della comunicazione, come frutto di un sistema di produzione articolato su vari livelli.
“In ogni piccola città, in ogni villaggio, si trova inalzato un teatro […] Mancherà la sussistenza agli indigenti, i ponti ai fiumi, gli scoli alle campagne, gli spedali agli infermi, e i provvedimenti alle calamità pubbliche, ma è fuori di dubbio, che non mancherà la sua spezie di Coliseo per gli scioperati”.
Pur con qualche esagerazione, le considerazioni dell’Arteaga (Le Rivoluzioni del teatro musicale italiano, Venezia 1785) delineano una situazione che tocca il centro della vita sociale e culturale italiana del Sette e dell’Ottocento. L’opera teatrale, sorta in Italia agli inizi del XVII secolo e impostasi a partire dal terzo decennio del secolo come operazione culturale ormai passata dalla corte alla città, si sviluppò effettivamente quale fenomeno globale capace di catalizzare gli interessi, le energie e le risorse di un’intera comunità e di primeggiare su qualsiasi altro aspetto della comunicazione culturale. L’irradiamento sociale e politico del melodramma è realtà di cui si usa quindi tener conto nel giudizio sull’opera di compositori grandi e piccoli della lunga tradizione italiana, a rivelare situazioni che toccano in primo luogo le condizioni di vita di una comunità nazionale la quale, al di là di diversità e contrasti legati alla divisione dell’Italia in molti stati, proprio nel teatro musicale trovava uno dei più importanti punti di convergenza e di sintesi.
Al centro si colloca l’impresario, figura le cui condizioni di lavoro e le necessità di sopravvivenza vincolavano a un comportamento di avventuriero con risvolti ai limiti della legalità, responsabili del modo in cui fu tramandato il suo ritratto equivoco. Nell’aspetto di mediatore, più o meno accorto, più o meno spregiudicato, questa figura si accompagna a quelle degli agenti (fornitori di cantanti), dei giornalisti (propagandisti attraverso riviste specializzate) e di altri intermediari a disegnare una situazione tipica di paese povero dove una moltitudine di individui era portata per necessità a trarre vantaggi lucrando sui pochi campi d’attività redditizi. Al di là dell’apparente rapporto di subordinazione per non dire di marginalità, la funzione dell’impresario si rivela equilibratrice in un mercato che, a differenza dei mezzi a disposizione per l’opera nelle grandi capitali monarchiche e imperiali quali Vienna o Parigi, contava su risorse inferiori.
Con le necessità di sfarzo legate all’opera seria la gestione diretta delle stagioni operistiche da parte delle autorità cittadine (siano esse vere e proprie emanazioni del governo oppure associazioni di palchettisti o di nobili, come avveniva nel Settecento), si sarebbe rivelata certo più dispendiosa di quanto un impresario, magari con l’implacabile sfruttamento del lavoro altrui (di cantanti, musicisti, ecc.), sarebbe stato in grado di garantire.
In altre parole il modello straniero non avrebbe mai permesso in Italia di portare il teatro musicale capillarmente nelle piccole località che si dotarono presto ed abbondantemente di teatri proprio per non dipendere solamente dalle capitali.
L’impresario anche con la sua losca fama diventava quindi il punto di volta di una situazione che contribuì certamente in modo fondamentale all’unità del paese prima che questo concetto si traducesse in politica concreta. Pur ostacolato da innumerevoli problemi doganali, di polizia (censure locali), di arbitrî legati all’autorità assolutistica, il lavoro dell’impresario poteva prosperare solo nell’ordinamento sociale dell’ancien régime tenuto in piedi dalla Restaurazione.
Per quanto ormai coinvolgente il pubblico borghese, la radice del melodramma ottocentesco era l’opera seria nel suo stampo aristocratico e ciò spiega l’avversione che per lungo tempo le riservarono le cerchie giacobine e radicali le quali, andate al potere per via elettiva nel momento dell’unità del paese, misero subito in discussione il principio del sussidio pubblico al teatro d’opera mettendo in crisi il settore. La figura dell’impresario scompare infatti con l’abbattimento delle vecchie gerarchie nel cui regime, pur tra mille vicissitudini, egli trovava largo spazio d’azione. Spazio garantito da un culto del teatro che a quel tempo presentava precisi risvolti di vantaggio politico, soprattutto sotto forma di controllo della popolazione nella situazione postnapoleonica di tensioni palesi e latenti.
Ne fa stato la dichiarazione del governatore della Lombardia austriaca a cui premeva che la Scala rimanesse aperta nelle solite stagioni, perché il teatro “trae a sé in luogo osservabile nelle ore notturne una gran parte della civile popolazione”.
D’altra parte il teatro musicale, con i suoi fenomeni di fanatismo per gli interpreti protagonisti, costituiva chiaramente una valvola di sfogo per le tensioni sociali, non diversamente da come lo è oggi lo sport, nel senso di costituire oggetto dominante delle discussioni quotidiane come dimostra la realtà dei numerosi giornali teatrali (per lo più alimentati da pettegolezzo) paragonabili alle odierne gazzette sportive. Il teatro musicale come luogo di presa di coscienza del riscatto nazionale, come siamo abituati a considerare, è fenomeno molto più limitato di quanto si creda. E sicuramente vero che la Norma nel gennaio-febbraio 1848 fu tolta dal cartellone a Cremona per le manifestazioni patriottiche che si scatenavano al coro di “Sgombre farà le Gallie”, ma è documentato anche come dieci anni prima nello stesso teatro la stessa opera venisse rappresentata in onore e alla presenza dell’imperatore austriaco preceduta addirittura dal canto dell’inno absburgico “Viva Ferdinando” intonato dal pubblico osannante.
Per quanto riguarda il ramo operistico italiano la problematica produttiva, in cui la componente economica detiene una posizione primaria, è stata ampiamente posta in risalto dai contributi di John Rosselli (Agenti teatrali nel mondo dell’opera lirica italiana dell’Ottocento, Olschki, Firenze 1982; L’impresario d’opera, EDT, Torino 1985; Sull’ali dorate: il mondo musicale italiano dell’Ottocento, Il Mulino, Bologna 1992; Il cantante d’opera: storia di una professione, Il Mulino, Bologna 1993). A complemento di quanto già emerso nella relativa documentazione vale la pena di richiamare l’attenzione su una significativa e organica testimonianza d’epoca.
Si tratta di un articolo dal titolo L’industria musicale in Italia pubblicato su “Nuova Antologia” (Anno XV, 1879, pp. 133-148) da Francesco D’Arcais (1830-1890), musicista e critico musicale, redattore. L’intervento del D’Arcais si collocava in un momento critico per le attività teatrali in Italia.
Premesso che anche allora non era possibile garantire una stagione operistica senza sussidi di enti pubblici, una situazione legislativa non ancora assestata contrastava con le necessità. Prima dell’unità “i principali teatri italiani erano largamente sovvenuti dai vari governi degli stati in cui era divisa la penisola”.
Il primo governo che abolì la cosiddetta “dote dello Stato ai teatri” fu il piemontese, proprio nella circostanza dell’intervento militare che condusse all’unificazione del paese, ma che assorbì tante e tali risorse da togliergli ogni capacità d’intervento nel campo della produzione artistica. Ad unità avvenuta il nuovo stato mantenne questa linea negativa, riservando i sussidi all’istruzione (conservatori, licei, scuole di musica) ma rifiutandoli ai teatri la cui gestione trovò comunque modo di garantirsi i contributi dei municipi locali.
Teatro di San Carlo, Napoli
Qui possiamo subito cogliere la realtà di una differenza strutturale tra teatri d’Italia (soggetti a logica regionalistica per non dire locale) e quelli stranieri che, in regime centralizzato, determinarono una diversa geografia culturale oltreché finanziaria: “A Parigi, pel solo teatro dell’Opera si spendono ottocentomila lire e ora si tratta di aumentare la sovvenzione; sarebbe più malagevole il determinare ciò che si spende a Vienna e a Berlino per i teatri imperiali, dove le doti cospicue spesso non bastano e si sopperisce alla mancanza dalla Lista civile o coi denari della cassetta privata de’ sovrani”.
Per un confronto il D’Arcais precisa che in Italia “la dote dei teatri maggiori non è mai inferiore a centomila lire; in alcuni raggiunge le duecentomila; in uno (il San Carlo di Napoli) le trecentomila”.
Si tratta comunque di un giro d’affari di tutto rispetto con incidenze occupazionali notevoli a partire dagli artisti che già allora non accampavano pretese inferiori a quelle odierne: “Una buona prima donna non costa oggidì meno di 25 o 30 mila lire per la stagione di carnevale-quaresima; per un tenore di vaglia si spendono dalle 40 alle 50 mila lire; [...] altre 10 mila vanno calcolate per i comprimari e le seconde parti [...] la spesa per l’orchestra e i cori si avvicina a cento mila lire”.
Alla spartizione della torta già enorme non concorrevano solo gli individui direttamente impegnati nello spettacolo ma una vasta schiera di intermediari e di beneficiari indiretti dei loro emolumenti: “I contratti degli artisti si conchiudono tutti per mezzo di sensali. Anche quando l’impresario tratta direttamente coll’artista, il sensale conserva ed esercita i suoi diritti”.
L’agente teatrale, che allora percepiva il cinque-sei per cento sugli onorari degli artisti, ne beneficiava anche sottoforma di “giornalista”: “È questa una delle più brutte e dolorose piaghe del nostro teatro. L’agente teatrale pertanto percepisce un tanto per i contratti e impone all’artista l’abbonamento al suo giornale; di più, si atteggia a protettore e patrono del cantante riproducendo a un tanto la riga tutte le lodi che questi riceve dagli altri giornalisti teatrali e politici, e lodandolo egli stesso mediante pecunia”.
D’Arcais ci rivela poi cosa stesse dietro gli alti onorari dei cantanti come apparato più o meno strutturato allo scopo di amplificarne la fama: “C’è il suonatore girovago che va a fargli la serenata dopo la prima rappresentazione di un’opera, c’è il frequentatore influente del teatro che vuol essere invitato a pranzo, o a cena; c’è il vecchio artista caduto in miseria che ha bisogno della elemosina; c’è sovrattutto la vanità del cantante stesso da soddisfare, la quale vanità è così smisurata, che lo spinge a comprar coll’oro gli applausi, gli inni, le corone d’alloro, e perfino l’approvazione del corista e del lumaio. Imperoché il corista e il lumaio sono come chi dicesse le trombe della fama; sono essi che dopo le prove spargono le prime notizie intorno alla maggiore o minore abilità dell’artista e formano, per così dire, l’atmosfera nella quale egli vivrà e si muoverà in seguito”.
Volta del Teatro di San Carlo, Napoli
Se a quell’epoca non esistevano i rotocalchi, c’erano però pubblicitari altrettanto efficaci.
Ma intorno al teatro cresceva una forma di commercio ben più organizzata, quella degli editori che, nel momento in cui fu sancito il principio della proprietà artistica, si sostituirono all’autore anche nell’esercizio del diritto di proprietà rispetto all’esecuzione. Il diritto di inscenare un’opera nuova di Verdi per una sola stagione e in un teatro primario veniva pagato dalle 12 alle 15 mila lire, per le opere di altri maestri dalle 5 alle 8 mila. Allora tuttavia la funzione dell’editore andava oltre il compito di fornitore di musica stampata e giungeva a “tutelare anche più efficacemente l’interesse artistico del maestro, imponendo condizioni all’impresario, scegliendo gli artisti, determinando il numero delle prove”.
La portata dell’intervento editoriale, socialmente e commercialmente parlando, è misurabile tuttavia oltre i confini del teatro. Trascrizioni di opere per canto e pianoforte, pianoforte solo, per altre combinazioni si diffondevano in tutto il paese e all’estero permettendo all’opera nota di fruttare ben al di là e a lungo oltre la rappresentazione. Se tentassimo un confronto con ciò che oggi rappresenta il disco in questo contesto di diffusione, ci renderemmo conto che i termini non sono sostanzialmente cambiati.
Ciò che attualmente costituisce quella che si può chiamare l’industria musicale era una realtà già chiaramente profilata più di un secolo fa al punto da indurre il D’Arcais a questa riflessione conclusiva: “Il governo, e più specialmente il Ministero d’agricoltura, industria e commercio, farebbe opera utilissima se intraprendesse indagini sulle condizioni dell’industria musicale in Italia, tenendo conto anche delle sue relazioni coll’estero. La musica è stata sempre, come già abbiamo ricordato, sorgente di ricchezza e di prosperità pel nostro paese; non siamo abbastanza ricchi né in condizioni economiche abbastanza floride, per tener in non cale un’industria artistica, la quale potrebbe anche essere un fecondo cespite d’entrata per le finanze nazionali”.