LA DOPPIA FACCIA DELL'ELISIR D'AMORE
L’elisir d’amore è un capolavoro in più sensi. Lo è innanzitutto come momento emergente nel vasto corpus compositivo donizettiano, che ha tramandato al repertorio meno di una decina di opere sulla settantina effettivamente composte.
Lo è poi in quanto modello di opera buffa in un’epoca ormai avvinta da tematiche sentimentali che privilegiavano il filone serio. Ora che un capolavoro simile, nato in un momento tutt’altro che favorevole, sia sgorgato di getto nello spazio di due settimane è cosa ancor più stupefacente della rapidità con cui Rossini riuscì a portare a compimento Il barbiere di Siviglia.
D’altra parte la vitalità proverbiale della tradizione melodrammatica italiana non si resse mai su teorizzazioni astratte (quando vi fece capo non mancò di produrre monumenti da museo), per cui una soluzione dei propri problemi, per quanto ragionata, non poteva che attuarsi immediatamente in prassi direttamente verificata nel pubblico. Pubblico che, nella fattispecie, fu quello milanese, il medesimo che, nella stessa primavera del 1832, aveva male accolto l’Ugo conte di Parigi, pure su libretto di Felice Romani, caduto senza appello al Teatro alla Scala. Lo stesso pubblico qualche mese dopo, il 12 maggio al Teatro della Canobbiana, acclamava L'elisir d'amore.
Lo stimolo dell’insuccesso dovette rappresentare la premessa necessaria alla riuscita dell’opera il cui soggetto il Romani trasse da un omonimo libretto di Scribe («Le philtre», già musicato da Auber).
Come tutte le opere nate a cavallo di epoche diversamente orientate, L’elisir d’amore sembra fatto apposta per suscitare diverse chiavi di lettura. Il canto dei contadini occupati nella mietitura, con cui si apre la prima scena, introduce ad esempio una notazione a cui senz’altro hanno guardato i propugnatori del verismo in musica, benché da parte di Donizetti non vi fosse nessun impegno indagatore di orientamento realistico.
La vera doppia faccia dell’opera riguarda i succhi sentimentali che si intrecciano con l’abile sfruttamento delle risorse comiche e che ripropongono quella bipolarità introdotta nel teatro musicale fin dai tempi de La buona figliola di Piccinni (1760), ma che qui in verità si trova a fare i conti con una palpitante sostanza sgorgante da sorgente romantica.
Il personaggio di Nemorino – assai più di Adina che, con tutta la sua ‘complessità’, non è in fondo che l’erede di maliziose e calcolatrici Serpine settecentesche – non lascia ricondurre la sua ingenuità alla condizione di contadinotto semplicione, ma, nell’infatuazione amorosa, che non concede spazio ad altro sentimento e che lo porta addirittura a ‘vendere l’anima’ arruolandosi soldato, scopre il candore di un sentire profondo che l’individuo non può più padroneggiare.
La fortuna dell’opera comica fino a Rossini era imputabile in fondo (al di là di ogni illusionismo) al tranquillizzante riconoscimento del personaggio chiave di turno, regista di ogni situazione e dipanatore di ogni groviglio, magistralmente canonizzato nel Figaro rossiniano. A fargli eco nell’Elisir c’è Dulcamara, il dottore ciarlatano capace di spacciare ai villici Bordeaux per filtro di potenza magica, ma che, nonostante la magnetica potenza della sua prima apparizione, viene poi declassato a furbesco profittatore di situazioni senza diventarne il vero protagonista.
Quando, nel finale, egli si ripresenta insieme al sergente Belcore a prendere congedo dagli abitanti del villaggio, l’opera è già conclusa nell’abbraccio dei due innamorati ritrovatisi in virtù di puro sentimento. A dimostrazione della china ormai presa dall’elemento comico basterà prestare orecchio all’arresa cantabilità del fagotto nell’introduzione alla celebre romanza «Una furtiva lacrima»: lo strumento per eccellenza chiamato in causa a contrappuntare gli esilaranti cicalecci di espressioni affatto esteriori, qui si fa veicolo di sostanza impalpabile, di toccante scandaglio dell’anima, in cui metaforicamente si preannuncia l’impotenza di Don Pasquale di continuare a battere le vie del comico in un secolo ormai destinato ad abbeverarsi ad altra vena.
A dimostrazione della china ormai presa dall’elemento comico basterà prestare orecchio all’arresa cantabilità del fagotto nell’introduzione alla celebra romanza “Una furtiva lacrima”: lo strumento per eccellenza chiamato in causa a contrappuntare gli esilaranti cicalecci di espressioni affatto esteriori qui si fa veicolo di sostanza impalpabile, di toccante scandaglio dell’anima, in cui metaforicamente è preannunciata l’impotenza di Don Pasquale di continuare a battere le vie del comico in un secolo ormai destinato ad abbeverarsi ad altra vena.