La fuga in avanti dei "Balli plastici" di Depero
In che misura una disciplina artistica può essere debitrice di un’altra per quanto riguarda l’intuizione di un nuovo traguardo estetico è dimostrato dai rapporti in ambito espressionistico tra la musica di Schönberg e la pittura di Kandinsky,
oppure in ambito francese tra il cubismo di Braque e Picasso e la politonalità del Groupe des Six. In Italia, dove operò una delle prime e più radicali avanguardie, il Futurismo, la musica si trattenne dal seguire il corso avanzato battuto dalle altre arti. Ne fornisce dimostrazione la vicenda dei Balli plastici proposti da Fortunato Depero il 14 aprile 1918 a Roma al Teatro dei Piccoli di Podrecca.
Depero non era nuovo ad incontri con la musica. Nel 1915 insieme a Giacomo Balla aveva lanciato il manifesto Ricostruzione futurista dell’universo, ideando poesie visive e soprattutto sculture-macchine in moto capaci di produrre nel contempo rumori.
Lo stesso anno pubblicava la sintesi teatrale astratta Colori, azione cromatico-rumorista di quattro solidi geometrici.
Nel 1916 progettava ed eseguiva per la compagnia dei balli russi di Diaghilev le scene e i costumi per Le chant du rossignol di Stravinsky. Nel 1917 fu coinvolto nella preparazione del balletto Parade che Picasso, Cocteau e Massine si erano trovati a discutere a Roma sotto l’occhio vigile di Diaghilev. In particolare Depero confezionò determinati costumi progettati da Picasso, quei managers che Jean Cocteau ricorda come “carcasses mal construites par un futuriste”, premurandosi di nascondere oltre al nome anche il merito di un artista che, dal semplice concetto di “uomini sandwich” suggerito da Picasso, aveva ricavato l’idea di un costume talmente compenetrato al personaggio (si trattava praticamente di una corazza modellata sull’immagine dei grattacieli di New York) da annullarne completamente l’apparenza.
Questa fu senz’altro la tappa principale che chiarì a Depero l’eliminazione dell’attore, prospettiva già in aria in casa futurista sulla spinta del principio della soppressione di ogni psicologia.
Il ricorso alla marionetta non fu quindi l’allineamento all’esperienza che Podrecca aveva già fatto assurgere ad alto livello artistico, bensì il tentativo di realizzare un teatro di forme in movimento.
Non per niente uno dei numeri dei Balli plastici, dal titolo Ombre, elimina la figura stessa intesa come volumetria in favore di un variato gioco di proiezioni luminose. Per il resto le marionette di Depero non esitano ad ammettere l’antropomorfismo che l’assenza di espressione corporale rende recuperabile a un discorso di pura azione.
Ciò che avviene nei quattro numeri che compongono il programma riporta a quegli accadimenti di realtà puramente e semplicemente registrata già affermati nelle sintesi teatrali di Marinetti, Cavacchioli, Corra e compagni, a cui il fatto di vedere protagonisti non già attori bensì marionette, toglieva ogni residuo di plausibilità, aggiungendo semmai un tocco di fantastico che lascia aperto in Depero l’ipotesi di una formulazione surrealistica. L’“apparizione di una ballerina azzurra e di un gatto nero che gioca con un topo bianco e se lo mangia” può ancora essere considerata semplice trasposizione del meccanismo del reale.
Qualcosa di più ambiguo suggerisce invece l’apparizione della “gigantessa selvaggia”: “[…] compare un’altra fila di occhi verdi, quindi il ventre della gigantessa s’apre rivelando un teatrino verde luminosissimo entro il quale danza un minuscolo selvaggetto d’argento con in mano un cuore rosso. Uscito dal ventre materno, verrà divorato poco dopo da un grosso serpente verde a costole mobili”.
Per la musica Depero si rivolse ad Alfredo Casella, allora impegnato a Roma dopo il rientro da Parigi nell’opera di sprovincializzazione della cultura musicale italiana.
Casella, il quale per l’occasione aveva strumentato per orchestra da camera i suoi Pupazzetti del 1916, fece capo per gli altri numeri a compositori già sotto il segno dell’ideale oggettivistico stravinskiano: Gian Francesco Malipiero, Gerald Tyrwhitt (Lord Berners) e Béla Bartók.
La stessa rivista di Casella, “Ars Nova”, assicurò larga pubblicità allo spettacolo. Tuttavia sarebbe stata la stessa rivista l’anno dopo ad ospitare il celebre editoriale del musicista in cui, parlando per la prima volta a fondo del Futurismo, ne avrebbe disapprovato “l’estetica” e la “volgarità nei mezzi di réclame e di lotta”.
La possibilità di definire un’organica corrente musicale italiana futurista, portando a fermentazione l’esperienza europea di Casella, svaniva quindi sopraffatta da più pacifici ideali dove il principio della moderazione era chiamato in causa in nome dell’“equilibrio che fu sempre la maggior caratteristica della nostra razza” e che avrebbe immunizzato la generazione italiana coeva dalla tentazione di mettere in questione i fondamenti del linguaggio musicale ereditato.