La musica nell'Italia fascista
Diversamente dal nazismo il fascismo italiano non propugnò un programma artistico specifico e vincolante.
Dal punto di vista musicale gli bastò la tradizione nei suoi aspetti consolidati, la linea verista di Mascagni, Giordano, ecc., che, accanto a Puccini (il quale fece in tempo a iscriversi al Pnf) fu assecondata non in nome di un’identità estetico-ideologica bensì del grado di consacrazione popolare raggiunto dal filone in cui si concludeva (e per sempre) la storia dell’opera italiana, veicolo di consenso che al regime bastò in quanto tale, anche senza le prove di fedeltà di un Mascagni occasionalmente responsabilizzato a comporre con il Nerone un inno alla romanità, indirettamente sollecitato dalla fatale priorità delle scelte culturali di allora.
Pietro Mascagni
In altre parole gli ultimi vent’anni della parabola verista si sarebbero svolti ugualmente anche senza il fascismo, il quale si accontentò di beneficiarne nei momenti di più intensa ricerca di consenso, evidente soprattutto quando l’emergenza, in seguito al crollo della dittatura, con l’avvento della Repubblica di Salò fece passare in second’ordine la promozione della “produzione operistica contemporanea […] convenendosi da tutti che bisogna in questo momento concedere al gusto del pubblico e seguirlo nelle sue preferenze” (lettera di Ottavio Tiby al ministro della cultura popolare, Mezzasoma).
Umberto Giordano
Una precisa rivendicazione venne invece immediatamente al regime dal più agguerrito fronte modernista: “La rivoluzione politica deve sostenere la rivoluzione artistica - cioè il futurismo e tutte le avanguardie”, fu il messaggio lanciato il 1° marzo 1923 dal manifesto I diritti artistici propugnati dai futuristi italiani.
Sennonché i futuristi, per la maggior parte identificati con le nuove sorti dell’Italia, anziché trovarvi illimitato campo d’azione furono assegnati alla funzione di copertura ideologica: il fascismo badò sempre con cura a servirsi della forza eversiva del movimento marinettiano nei momenti proclamatori, eludendone le istanze in fase di consolidamento del potere. Si potrebbe anzi sostenere che l’istituzionalizzazione apparente del futurismo durante il ventennio abbia addirittura agito come devianza da un’organica via di sviluppo che giunse a fargli perdere di vista i propri obiettivi, probabilmente proprio a causa dell’ambiguo rapporto col regime.
In ogni caso i risultati del futurismo in campo musicale, notoriamente modesti e inferiori per peso e qualità rispetto a quanto espresso negli altri rami dell’espressione artistica, non possono costituire il termometro privilegiato di una situazione che incise più marcatamente altrove.
Protagonista di un rinnovamento in nome della tradizione (che ambiva a ricucire il presente di ritrovati contatti con le forze nuove d’Europa con l’aulico passato strumentale sei-settecentesco al di là della dilagante prassi melodrammatica scaduta ai suoi occhi) fu la cosiddetta “Generazione dell’Ottanta” che, sulla spinta di una riattizzata energia nazionalistica, si assunse il compito di tracciare la via alla musica della nuova Italia, occupando con i propri esponenti i punti chiave delle istituzioni musicali del paese.
La dittatura mussoliniana infatti non operò mai manicheisticamente a somiglianza dei proclami e delle condanne naziste dell’“arte degenerata”. Le forze nuove trovarono anzi in Italia sostegno nel regime, che a più riprese, nel 1925 a Venezia, nel 1928 a Siena e nel 1934 a Firenze, sostenne finanziariamente i festival della SIMC (Società Internazionale di Musica Contemporanea) ospitati in casa propria.
Vi fu quindi un’identificazione tra regime e corrente musicale modernistica certamente non sempre pacifico, ma i cui momenti di rottura corrisposero non tanto a predeterminazioni politiche bensì a fratture interne a un campo musicale a sua volta fondato su ambiguità destinate di volta in volta a rivelare la natura contraddittoria della scelta nazionalistica. In tal modo ciò che nella “Generazione dell’Ottanta” fin dall’inizio rivelava la divisione in due fronti – tra coloro per i quali la musica non facit saltus (Ildebrando Pizzetti, Ottorino Respighi, Franco Alfano) e i radicali (Gianfrancesco Malipiero, Alfredo Casella) – finì con l’alimentare diatribe e dichiarate rotture.
Ildebrando Pizzetti
Il momento più critico e bruciante si ebbe nel 1932 con la pubblicazione sul “Corriere della sera” di un manifesto che vide schierati Respighi e Pizzetti con un gruppo di figure minori e opportunistiche (Alceo Toni, Giuseppe Mulè e altri) contro l’ala più innovativa condotta da Casella e Malipiero, a cui veniva rimproverata l’accondiscendenza agli esperimenti inconcludenti, la perdita di continuità con la tradizione, la predilezione per la “musica oggettiva” deprecata in nome del “romanticismo di ieri [che] sarà anche quello di domani”.
Ottorino Respighi
Orbene, l’intervento personale di Mussolini nella vicenda, astutamente politico, non significò un parteggiamento per la corrente palesemente restaurativa, ma cercò di conciliare (riuscendovi) gli opposti schieramenti, finendo col fare l’interesse degli innovatori. In tutta la sua fase di maturazione il fascismo italiano riuscì nell’intento mediatore di ciò che di nuovo si agitava nella musica in Italia, il cui fondamento rimaneva l’assunto neoclassicistico del riferimento agli italici modelli del passato e, in quanto tale, immediatamente assimilabile all’orientamento culturale del regime, nonostante il fatto che, nei suoi aspetti più evoluti, tale tendenza si collegasse con la corrente più cosmopolitica dell’avanguardia europea d’allora.
Fu così che l’impegno di Alfredo Casella di far uscire il paese da una palese condizione di arretratezza (“non esiste in Italia una vera vita artistica moderna, come esiste a Berlino, a Parigi, in Russia e persino a New York”) accreditò l’idea che tal compito potesse venire assunto dallo stesso stato fascista nel vortice rinnovatore della mentalità e del costume italiani. Effettivamente, nelle prospettive di sviluppo ipotizzate dai protagonisti della musica italiana del tempo, il fascismo assecondava ampiamente questa linea in cui vedeva esaltato quell’elemento di ordine che Casella stesso, in un celebre intervento sulla rivista viennese Anbruch del 1929, concepiva come aspirazione comune dell’arte e della politica italiana del tempo.
Gian Francesco Malipiero e Alfredo Casella. 1916
Il fascismo non fu comunque un fenomeno statico per cui, già prima di adeguarsi alla situazione europea con l’asse privilegiato Roma-Berlino che subordinò l’Italia alle esigenze della politica nazista con contraccolpi anche in campo musicale – si veda l’uscita della sezione italiana della SIMC e la fine dell’aspirazione caselliana all’equilibrio tra ritrovata identità nazionale e proiezione internazionale della nuova musica italiana – la svolta in direzione ‘imperiale’ a partire dal 1930 portò a privilegiare un’arte “sociale”, “morale”, “anticerebrale”, “universale”, “dai grandi contenuti” (Mussolini), con particolare considerazione per gli effetti sulla massa che ne potevano conseguire.
Fu sul teatro allora che si concentrò a un certo punto l’attenzione del regime (“la musica da concerto non arriva alle grandi folle, e quella da teatro sì, è la musica da teatro che bisogna far rinascere prima di tutto”, così suonava già nel 1927 un’enunciazione del duce).
Sull’onda demagogica di un regime sempre più volto alla propaganda si assistette a una svolta coinvolgente compositori attivi su vari fronti nell’adeguamento alle aspirazioni epiche e restaurative della dittatura: “Casella riscopre la forma dell’oratorio per cantare, nell’ora della vittoria, l’impresa ‘civilizzatrice’ della guerra etiopica (Deserto tentato), Malipiero rivisita il mito della romanità per coniugarlo con il teatro delle masse (Giulio Cesare, Antonio e Cleopatra), […] Pizzetti con Orsèolo, Alfano con Cyrano di Bergerac, Respighi con La fiamma si inoltrano per i sentieri più battuti del mélo” (Fiamma Nicolodi). Malipiero in particolare in questa nuova prospettiva si impone una mutazione di stile, con rinuncia alla ‘sperimentale’ struttura a pannelli dei suoi precedenti saggi teatrali (Sette canzoni, ecc.) in favore della linearità del recitativo, giungendo a compromessi persino con le forme melodrammatiche.
Ottorino Respighi, La Fiamma
Più che l’adesione diretta alle iniziative del regime (la partecipazione ad esempio di ‘insospettabili’ quali Luigi Dallapiccola e Malipiero alla commissione per lo studio di metodi autarchici di insegnamento per gli istituti musicali italiani nel 1941), più della fitta cronaca di rituale servilismo con sollecitazioni di patronato, dichiarazioni di fedeltà, ricerca di raccomandazioni e innumerevoli altri episodi di sottomissione di musicisti grandi e piccoli, è a questo livello che si riconosce la dipendenza dalle istanze politiche predominanti nell’epoca in un’arte fondamentalmente incapace di sottrarsi alle prospettive di una società consolidata nei suoi valori, al punto da lasciar riconoscere in un’opera quale Volo di notte (1937-38) di Dallapiccola (in cui peraltro matura l’avvicinamento del compositore alla scuola dodecafonica viennese guardata con diffidenza dai cultori ufficiali di un’arte mediterranea) il mito dell’aviatore, figura emblematica dell’esempio eroico capace di sfidare l’impossibile e di sacrificarsi per un’idea superiore.
Baccio M. Bacci, bozzetto per fondale della scena ultima di
Volo di Notte di Luigi Dallapiccola, 1940
matita e tempera su carta
Luigi Dallapiccola, da giovane e in età matura