Le canzoni del Sessantotto
Uno dei tanti modi di ripercorrere la storia è quello di farlo attraverso le canzoni.
All’ascolto anche occasionale, la “Canzone dell’amore” cantata da De Sica nel film di Camerini “Gli uomini che mascalzoni” (1932) o una qualsiasi canzone di Edith Piaf spalancano la finestra su un mondo che, per il modo di sentire e di trasmettere le emozioni, ci si presenta storicizzato secondo le più perfette regole.
C’è però un paradosso. A determinare tale funzione sono le canzoni più evasive, quelle meno legate agli eventi dell’epoca, anziché le cosiddette “canzoni impegnate” o di protesta direttamente legate ai fatti. Più facilmente ci sono tramandate le prime (si pensi a “Canzone per te” di Sergio Endrigo vincitrice del Festival di Sanremo proprio nel 1968 e a “La bambola” con cui lo stesso anno Patty Pravo vinse a Venezia la “gondola d’oro” alla Mostra Internazionale di Musica Leggera), mentre le seconde devono accontentarsi semmai di vivere nel ricordo degli stessi protagonisti.
È ciò che è successo negli anni della contestazione, che ha prodotto canzoni battagliere beneficiando dell’esperienza dei Cantacronache torinesi del decennio precedente e del Nuovo Canzoniere Italiano, delle canzoni di Fausto Amodei (quando a proposito della sua chitarra rubata cantava “… era alle volte estremista, e la sua grande ambizione era di accompagnare la musica della rivoluzione”) e del recupero dei canti “sociali” e anarchici promossi da Roberto Leydi e da Cesare Bermani.
Essi potevano contare sullo sfrontato modello vocale di Michele Straniero e della voce tesa e infuocata di Giovanna Marini, formati per infiammare il pubblico nelle manifestazioni di piazza più che nelle sale dei concerti, naturali e non amplificati attraverso i microfoni, ai quali bastava il sostegno di pochi essenziali accordi di chitarra per ottenere un impatto più penetrante degli arrangiamenti strumentali con tastiere e chitarre elettriche.
Era la trasposizione dello stile gridato del canto collettivo, operaio e contadino, fatto proprio da giovani studenti motivati nel recupero del senso di riscatto attraverso la musica, determinato dalla volontà di riscossa contro il preteso potere repressivo delle istituzioni e della “borghesia”. In tale contesto emersero Ivan Della Mea, Rudy Assuntino, Gualtiero Bertelli e altri, quali nuovi cantastorie che, sulla linea di narrazioni ancora plasmate sui moduli della tradizione rurale affrontavano la nuova realtà industriale.
Direttamente prodotto dai moti studenteschi vi fu poi il caso emblematico di Paolo Pietrangeli, autore di “Contessa” (in verità nata due anni prima del 1968 durante l’occupazione dell’Università di Roma seguita all’uccisione dello studente Paolo Rossi da parte dei fascisti), composta in una notte prendendo lo spunto dalle conversazioni che alcune signore della buona società facevano a proposito di quell’occupazione e di pretese orge sessuali, oltre che riferirsi alla cronaca di un piccolo sciopero in una fabbrichetta di Roma dove il padrone aveva chiamato la polizia ad impedire il picchettaggio promosso dai suoi operai.
Canzoni cinquant’anni fa popolarissime quali “Contessa” (culminante nella strofa “Compagni dai campi e dalle officine / prendete la falce portate il martello / scendete giù in piazza picchiate con quello / scendete giù in piazza affossate il sistema”) sono rimaste mute in quest’anno celebrativo del 68 senza nemmeno approfittare della facilità con cui l’odierna civiltà audiovisiva potrebbe veicolarle.
Eppure quell’esperienza segnò un traguardo stilistico di non poco conto come riflesso non mediato della realtà, percepibile già al livello dell’impostazione vocale.
Paolo Pietrangeli
Più ancora degli “urlatori” furono i cantanti ‘politici’ a contrastare la tradizionale maniera vocale italiana, stornellante, sospirosa, sdolcinata, che in qualche modo si è preservata nel “rock mediterraneo” il quale (rispetto al modello anglosassone) tende al falsettismo. La canzone politica italiana scopriva i timbri baritonali, la rudezza del richiamo al canto contadino, quella “grana” sonora che non poteva superare il filtro della “commissione d’ascolto” della RAI.
Contro la gradevolezza si esaltava la voce naturale nel suo stadio premusicale. Nasceva un modello vocale “tenorilsocionasale” (come è stato denominato da Franco Fabbri) che in sostanza era la voce della militanza politica di quegli anni e che, coerentemente con la scelta di fondo, indirizzava autori e cantanti a privilegiare l’impatto diretto col pubblico.
Di qui il precario rapporto col disco, che delle canzoni politiche fu veicolo di diffusione ma non la loro finalizzazione.
Ivan Della Mea
La riflessione sul ruolo autonomo del disco rimase estranea alla canzone politica: esso ne moltiplicava semplicemente l’impatto accontentandosi di captarla nei concerti dal vivo. Ciò spiega anche l’estraneità della canzone politica all’aggiornamento dell’apparato tecnologico di produzione sonora e l’avversione ai mezzi elettronici (ci fu addirittura chi sosteneva che usare una chitarra elettrica significava finanziare indirettamente le armi che sterminavano i vietnamiti). In verità fu proprio questo appuntamento mancato a segnare il destino della canzone politica italiana, rimasta arroccata nella sua dimensione ‘artigianale’, volontaristica, fiera di considerarsi il prolungamento della tradizione contadina e proletaria.
Quando negli anni 70 le più giovani generazioni, sotto la spinta internazionale del rock, aprirono la canzone alle tematiche sociali e politiche fino ad inalberarla come emblema di contestazione, in Italia poterono ignorare puramente e semplicemente l’esperienza della canzone sessantottesca percepita come appartenente a un altro mondo. Confinata in una situazione senza sviluppo essa non venne assimilata alla tradizione musicale giovanile, spiegando la sua uscita di scena.