LO SVILUPPO DELLE IDEE IN MUSICA
Potrà sembrare paradossale, ma occorre riconoscere che il principio, ancor oggi riconosciuto dalla teoria della musica come mezzo per interpretare il funzionamento del linguaggio musicale classico-romantico (quello della ‘forma sonata’), non venne formulato né ai tempi di Haydn né a quelli di Beethoven. Il termine stesso non esisteva a quell’epoca e quando noi cercassimo di trovarne una conferma nei trattati del periodo posteriore, troveremmo descrizioni vicine per certi versi all’idea oggi corrente relativa a questo principio, ma per altri versi lontana e contraddittoria.
Diversamente dal ricercare o dalla fuga ciò che oggi intendiamo per forma sonata è tutto fuorché ciò che lascerebbe intendere la terminologia, tutto fuorché una ricetta formale seguendo la quale sarebbe possibile contenere il discorso musicale in solido involucro.
Forma sonata è il tipico esempio di categoria del poi, strumentalmente coniata come chiave (passe-partout) in grado di aprire le porte di un palazzo celante le meraviglie di cui tutti vorrebbero scoprire il segreto. Nulla invece di meno codificabile di uno stile che, per quanto si possa prestare a una lettura schematica come quella costituita dalla formula in questione, sfugge quasi sistematicamente a ogni tentativo di irretimento in percorsi obbligati.
Significativo è quindi il fatto che, pur praticandone il principio che vi sta alla base, per decenni non si parlasse di forma sonata. Altrettanto significativo è il fatto che, nel momento in cui per la prima volta si giunse ad analizzare tale principio strutturale, gli aspetti oggi ritenuti secondari fossero considerati di primo piano. Una storia dell’evoluzione del termine forma sonata, che senza dubbio potrebbe essere più illuminante di un intero capitolo di storia della musica, non è tuttavia stata ancora scritta. Per il momento dobbiamo accontentarci di una semplice ricognizione, che tentiamo con alcuni testi del passato oggi relegati nel dimenticatoio.
Senz’essere cronologicamente il primo, uno dei primi a fornire l’analisi della cosiddetta forma sonata fu Anton Reicha, compositore di origine boema e celebre teorico che dettava legge al Conservatorio di Parigi al tempo in cui vi approdarono Berlioz e Liszt. Nel suo Traité de haute composition musicale (1824) compare un’ampia analisi della “grande coupe binaire” che, riferita al modello dell’ouverture dell’opera Le nozze di Figaro di Mozart, non è altro che quella della forma sonata. Qui già ci troviamo di fronte a un fatto curioso, cioè che l’ouverture in questione non si compone delle tre fasi tipiche della struttura sonatistica (cioè esposizione-sviluppo-riesposizione) bensì di esposizione a cui succede immediatamente la riesposizione.
Reicha era già però in grado di considerare le circostanze che stavano alla base di una composizione, in particolare il fatto che l’inizio di un’opera teatrale non poteva essere altro che un pretesto di richiamo all’attenzione a cui era oggettivamente impedito di diffondersi in elaborazioni impegnative. Anzi, proprio considerando che l’occasione avrebbe scoraggiato Mozart dal ricavare un adeguato sviluppo dalla ricchezza di idee contenute nell’esposizione, lo indusse a fornire il modello non di uno bensì di almeno due sviluppi possibili da inserire a metà dell’ouverture a dimostrazione di come lo sviluppo sia il momento di maggiore impegno compositivo quale sfoggio di dottrina e di tecnica contrappuntistica.
L’interesse di tale testimonianza di Reicha non sta però nell’ardito tentativo di ricomporre il capolavoro mozartiano, bensì nei principî che reggono la sua analisi e che si concentrano quasi esclusivamente sul concetto di sviluppo delle idee melodiche, al punto che al teorico non basta individuare i due temi principali, come ci è insegnato dalla teoria attuale: la sua capacità analitica gli consente di censire almeno nove temi o meglio, come egli li chiama, idee.
Qui potrebbe già essere posta una questione in base alla constatazione che nella teoria più antica non compariva il termine idea a connotare l’entità melodica o tematica. Il termine più corrente, nel caso dei testi che tramandavano la tecnica di composizione della fuga ad esempio, era soggetto e conseguentemente controsoggetto, cioè un’espressione che si accontentava di designare la posizione dell’entità melodica nella composizione, mentre il significato del termine idea, di cui a un certo momento si farà anche abuso, va oltre fino ad implicare l’equivalenza tra discorso musicale e processo intellettivo.
Giuseppe Carpani
In Italia nel XVIII secolo più che idea si usava il termine motivo che il Carpani all’inizio dell’Ottocento, impegnato nelle analisi del modello haydniano, credette di poter mettere a fuoco in base all’etimologia: “indicando con ciò, ch’egli dà moto e direzione a tutti gli altri”. È difficile sostenere senza altri riscontri tale origine del termine, ma è certo che la struttura sonatistica di quell’epoca, pur mantenendo come obiettivo ultimo il principio dell’equilibrio, introduceva elementi di instabilità in una forma che precedentemente ricercava la simmetria già nel profilo tematico.
Joseph Haydn
I motivi di Haydn non cercavano invece la compiutezza (fu il Mayr il primo ad accorgersene: “Non hanno questi allegri talvolta neppur un tema e sembrano cominciare nel mezzo”) ma mirano ad organizzare il linguaggio sull’arco di enormi tensioni sprigionate fra permanenti stati di squilibrio. In una delle prime descrizioni della forma sonata risalente al 1796 (come si può leggere negli Elementi teorico-pratici di Musica di Francesco Galeazzi) tale realtà era già ben chiara alla coscienza del compositore: “È proprio de’ principianti il lambiccarsi il cervello per sciegliere un bel motivo per le loro Composizioni senza riflettere, che ogni buona composizione deve sempre crescere in effetto dal principio al fine: se adunque si scieglie un sorprendente motivo, sarà molto difficile che la composizione vadi crescere, anzi all’opposto andrà considerabilmente a scemare, ciò che screditerà totalmente la Composizione ad onta del bellissimo Motivo”.
Qui si situa il punto di discriminazione tra la forma sonata e l’aria operistica, benché probabilmente la prima derivi dalla seconda nella tripartizione A-B-A. L’aria vocale esaltava infatti il bel tema compiuto, concepito staticamente sul quale (soprattutto nella ripresa) compositore e addirittura interprete potevano intervenire con fioriture ed ornamentazioni che rimanevano tuttavia esterne e non erano paragonabili alla configurazione che, in termini di elaborazioni, il tema subiva nello sviluppo sonatistico. Solo in un aspetto l’opera sposa l’organizzazione del linguaggio tipica della forma sonata: nei finali, dove si fa avanti un altro concetto (quello del dramma). Il finale (drammatico) sviluppato rompe lo schema chiuso dell’aria (lirica): i personaggi non si dichiarano solamente ma si affrontano.
È quindi fondato parlare di forma sonata come di modello drammatico, nella misura in cui il principio non venne messo a punto solo nell’ambito della musica strumentale ma, a partire da Mozart, anche nella musica per teatro. D’altronde successive esperienze, come quella wagneriana, non fecero che confermare l’improponibilità di una totale divaricazione dei due momenti: cosa non è il Leitmotiv se non la personificazione di entità tematiche agenti in termini strumentali non solo con valore drammatico ma come veri personaggi in orchestra!
Richard Wagner
All’epoca di Wagner in un certo senso (anche se non passò alla storia come compositore di quartetti, sonate, sinfonie, cioè come esponente di quei generi in cui precipuamente venivano praticati i concetti che stiamo dibattendo) si compie la parabola di un modo di organizzare il linguaggio che viene finalmente codificato nel momento in cui l’originale priorità del principio armonico (la polarità di tonica e dominante, ecc.) viene meno in favore dell’acquisizione di un nuovo significato da parte delle entità melodiche (dei temi), non più imposte come fattori di semplice o sorprendente bellezza ma che assumono peso specifico sempre più diverso come dato concettuale (Galeazzi chiama il motivo anche “pensiere”) in analogia con altre attività espressive o dell’intelletto che la musica via via tendeva a incorporare. Il momento di volta di tale processo è da ricercare sicuramente in Beethoven il quale, cogliendo nella forma sonata l’azione di quello che egli chiamò “principio di opposizione” (widerstrebende Prinzip) contrapposto a “principio implorante” (bittendes Prinzip), tentò di trascendere il puro stadio emotivo dell’espressione per articolare il suo discorso in analogia con i principî formulati dalla filosofia kantiana. Non per niente su uno dei suoi taccuini assume inequivocabile evidenza la trascrizione di un’affermazione di Kant: “Nell’anima come nel mondo fisico agiscono due forze entrambe ugualmente grandi e semplici, desunte da uno stesso principio generale: la forza di attrazione e quella di repulsione”. A Schindler inoltre il compositore giunse a dire che il carattere di opposizione tra i due temi della Sonata op. 14 riproducevano “un dialogo tra un uomo e una donna, o tra un amante e la sua amata”.
Silhouette di Ludvig van Beethoven
Le tensioni che la forma sonata era in grado di liberare con Beethoven andavano quindi ormai al di là della prospettiva di “giuoco filarmonico” che il Carpani riscontrava in Haydn. Il prevalere del peso dato alla definizione melodica dei temi, come appare nell’analisi di Reicha, conferma la stessa direzione la quale, attraverso il Leitmotiv di Wagner caricato ulteriormente e ostentatamente di livelli simbolici, al termine di questa parabola (perdendo di vista il rapporto originale fra funzioni melodiche e armoniche) porterà non solo alla liquidazione del principio formale in questione ma addirittura (nell’evoluzione che dal cromatismo integrale porta all’atonalità) al sovvertimento delle basi storiche della comunicazione musicale.