LUCIANO BERIO MUSICISTA LAICO
Indubbiamente Luciano Berio è un nome che negli ultimi decenni è venuto a incarnare l'emblema stesso della musica contemporanea, forma espressiva che si è mantenuta più per l'inerziale spinta dello sviluppo del moderno linguaggio dei suoni condotto in luoghi-laboratorio che attraverso l'affermazione fra il pubblico.
Diversamente dalla logica che ancora riguarda la modernità storica, individuabile nei nomi dei protagonisti (Schönberg, Stravinsky, Bartók, ecc.), e quella di metà secolo (rappresentata da Stockhausen, Boulez, Nono, Cage, ecc.), l’ultima fase di questa evoluzione ha lasciato dietro di sé un vuoto nominalistico corrispondente a una difficoltà oggettiva di identificazione in una tendenza, in gran parte finita nelle secche dell'opera testimonianza, di un grado evolutivo equivalente a un'affermazione di principio, non più rispondente a un bisogno espressivo socialmente fondato. Fra questi Berio è colui che ha saputo acquisire maggiore concretezza, non solo in virtù del suo parallelo ruolo di esecutore (peraltro condiviso con altri), ma soprattutto come autore di una musica che, nel rapporto comunicativo, si affida direttamente al suo puro e semplice risuonare.
Senza sottrarsi alla problematicità del contesto in cui si situa (la dimensione metalinguistica a cui si tende a ricondurre ogni verifica dell'organicità estetica contemporanea), il suo messaggio si è sempre lasciato decifrare al livello dell'ascolto concreto, finanche nel piacere di soggiacere alle tentazioni del suono in quanto tale, al punto da trovare uno dei primi tentativi di sistemazione critica in quel capitolo del libro di Mario Bortolotto (Fase seconda, Torino [Einaudi] 1969) non a caso intitolato “Luciano Berio, o dei piaceri” che metteva in risalto proprio quella componente che, come presunto fattore di connivenza con le basse pulsioni dell'ascolto, era programmaticamente oggetto di esecrazione da parte di coloro che si situavano sul fronte radicale. In tale circostanza il critico non mancava di riportare la riflessione del musicista che, prendendo atto degli esiti estremi della "nuova musica" constatava che:
Oggi si dà per la prima volta il caso assai curioso del compositore che anche i nostri padri non esiterebbero a definire ‘antimusicale’. È sconcertante constatare come la possibilità di far musica anche al di fuori di una partecipazione fisica all'atto musicale e di un controllo totale del materiale sia cosa ormai acquisita alla 'storia' della musica.
La sua conclusione - circa il fatto che “non esiste crisi nella musica ed è da dubitare che sia mai esistita. Esistono solo opere che sono o non sono significative e persone più o meno educate alla loro assimilazione” - corrisponde a una presa di coscienza che, pur avendo partecipato al corso dell'avanguardia con cui ha condiviso l'idea di un linguaggio in continua evoluzione, non ha mai sposato l'estremizzazione delle scelte di coloro che erano guidati più dal principio ideologico che dal senso musicale.
Pierre Boulez e Karl Heinz Stockausen
Luciano Berio non ha mai conosciuto rallentamenti in una produzione feconda e stimolata dagli inviti che gli provenivano da ogni parte. La spiegazione va cercata nell’approccio alla musica di tipo “artigianale” che per lui ha valso assai più di qualsiasi alambiccata azione progettuale diventata regola in un ambito dove il compositore contava innanzitutto come personalità intellettuale. Umberto Eco ha giustamente sottolineato l'importanza di Berio come intellettuale prima ancora che come musicista, per i suoi contributi al chiarimento dei principi che governano la percezione estetica e la comunicazione (non solo trasformando in discorso musicale le idee che provenivano da altre ricerche, ma anche influenzando altri ambienti trasmettendovi i risultati della propria disciplina). Tuttavia, paradossalmente, il compositore contemporaneo dall’inconfondibile lucidità intellettuale che traspare in ogni suo scritto o intervista, cessava di essere intellettuale quando componeva.
Berio era un musicista che partiva dal suono, che esplorava sul campo e non a tavolino le possibilità della voce e degli strumenti, che affrontava il materiale musicale senza i paraocchi delle strutture ideologiche, quello che egli aveva chiamato “ogni richiamo apollineo e dionisiaco” opponendogli “le qualifiche pratiche ed artigiane del compositore”. L'interesse per i procedimenti della tecnologia e dell'elettronica, che lo portò a fondare nel 1955 con Bruno Maderna lo Studio di Fonologia della RAI di Milano, aveva radice in questa sua natura di musicista ‘laico’, calato nel proprio tempo e nella società, non impegnato a lanciare messaggi al futuro in base a una visionarietà di stampo spiritualistico rimasta impressa nel comportamento delle avanguardie, ma in costante dialogo con il presente, a dare e a ricevere stimoli da tutte le espressioni artistiche, anche le più umili e scontate, come la musica popolare e il rock.
Il problema compositivo di Berio non si risolveva tra lui e il pentagramma ancora vuoto da riempire di note, bensì tra lui e lo strumento, tra lui e il suono, tra lui e l'elemento pulsante della musica. Nulla delle sue pagine ha subito invecchiamento, poiché nulla di quanto da lui scritto è mai stato asservito all'ideologia e ai suoi livelli fatalmente soggetti all'usuradel tempo.
Luciano Berio e Bruno Maderna
Le “sequenze”, cioè quelle composizioni concepite da Berio per un singolo strumento, costituiscono la quintessenza di questa sua inconfondibile posizione, poiché toccano la base della questione compositiva, l’unità elementare da cui è destinato a svilupparsi il discorso musicale: il suono del singolo strumento. È lì che si costata il grado di disponibilità combinatoria promosso da Berio al di là di ogni vincolo ideologico e invece aperto su ciò che della tradizione (cioè della realtà) è ancora vitale. Il virtuosismo di figurazioni sfrenate che domina la Sequenza per viola sola è una profonda e rigorosa analisi della più sofisticata prassi esecutiva dello strumento ad arco, dove la tensione è data dal fatto che la composizione ha termine là dove l’apparato virtuosistico vien meno per far posto a una melodia, rovesciando in un certo senso la regola della convenzione virtuosistica ma nel contempo individuandone la verità; così come quando nella Sequenza per violino solo egli introduce passaggi che, per assicurare il massimo effetto di velocità, riportano la diteggiatura del Moto perpetuo di Paganini (assicurabile da parte di qualsiasi violinista di professione) ma non già le relative note. In tale ricerca di quintessenza, dove la teoria compositiva si riduce all’idea di drammaturgia sonora, è possibile cogliere le molle che garantiscono originalità, coerenza e alto grado di comunicazione alle composizioni di Luciano Berio.
Nella sua esperienza è certamente possibile riscontrare fasi che lo riconoscono in linea con le tappe di sviluppo della musica contemporanea (serialismo, aleatorietà, ecc.), ma mai al punto da fare della sua musica il manifesto di un movimento programmatico di idee. In questo senso egli è accomunabile a Stravinsky, al compositore che nonostante tutto ha contato più di ogni altro per lui. Anche Stravinsky è riconoscibile come esponente di precisi e delimitabili gradi di sviluppo della musica moderna (dal fauvismo, al neoclassicismo, alla stessa dodecafonia), ma la sua musica si svolge sempre un palmo sopra, o sotto (la gerarchia qui non conta) il livello programmatico della relativa ideologia. Appunto Berio è artista artigiano quanto Stravinsky (ciò che non vuol dire al di fuori del tempo bensì nel cuore del tempo, in ciò che del tempo è vitale), in quanto, più di ogni altro, egli aveva ben presente i portati della tradizione, il patrimonio che gli proveniva dal passato, dato ben verificabile nelle varie e numerose operazioni di "d'après" che l'hanno portato ad integrare autori quali Monteverdi, Boccherini, Verdi, Brahms, De Falla, come orchestratore, o addirittura Schubert (Rendering, 1989) e Puccini (il finale di Turandot per il festival di Salisburgo del 2002) in vere e proprie operazioni di "musica al quadrato", cioè di rifacimento: tentativi possibili solo attraverso una conoscenza approfondita dei modelli.
Orbene qui non si tratta semplicemente di ammirare la bravura del facitore, la capacità di vestire i panni dell'altro in un'operazione di illusionismo. Innanzitutto, se c'è un autore estraneo al processo dell'immedesimazione quello è proprio Berio, il quale non si è mai stancato di riferirsi a Brecht e alla teoria dello straniamento per misurare il grado di modernità del suo fare. Quindi il confronto con il patrimonio conservato nel tempo non è tanto il riconoscimento di una derivazione, di un debito verso i padri, ma è proprio il contrario, cioè la rottura del cordone ombelicale che a loro ci lega per affermare la distanza che da loro ci separa. La rielaborazione in tal caso si presenta come una collocazione in prospettiva, una scelta di angolazioni da cui osservare il paesaggio sonoro del passato, dove ciò che qualifica non è l'oggetto osservato bensì il tipo di messa a fuoco da cui è possibile stabilire la distanza e la posizione dell'osservatore. Come “parafrasi” essa può rimandare a Liszt, nella misura in cui il grande romantico (non nelle “improvvisazioni” su temi del teatro operistico ma nelle più concettuali variazioni su Bach) si proponeva di andare alla sostanza di un linguaggio individuato nella componente durevole e suscettibile di significare qualcosa al di là del tempo.
Il momento più programmatico è rappresentato dal terzo movimento di Sinfonia (1968), la più nota probabilmente fra le sue composizioni, in cui è incorporato lo “Scherzo” della Seconda Sinfonia di Mahler e definita dal suo autore come il risultato di “una specie di ‘viaggio a Citera’ compiuto appunto a bordo del terzo movimento della Seconda Sinfonia. Il movimento mahleriano è trattato come un generatore (e anche come un contenitore) da cui proliferano un gran numero di personaggi e di caratteri musicali che vanno da Bach a Schönberg, da Brahms a Strauss, da Beethoven a Stravinsky, da Berg a Webern, a Boulez, a Pousseur, a me stesso e altri”. Un viaggio della scoperta evidentemente, alla ricerca del nuovo, ma soprattutto un viaggio della memoria in un'operazione che mette bene in luce la rete stretta di relazioni tra il Novecento e il passato anteriore.
Nella condizione di modernità non è più ammissibile la sordità verso rivelazioni sonore di àmbiti culturali discosti dal nostro, ma, mentre ad esempio i tentativi di Stockhausen nell’assimilazione di concezioni extraeuropee hanno confermato il persistere di una mentalità in cui si ripercuotono ascendenze culturali ineliminabili, la musica di Berio, senza ausilio di motivazioni teoriche, ha rivelato la possibilità di porsene all’ascolto come a fatto sonoro indiscriminante, percepito oltre ogni crisi dove, anziché affermarsi come conquista, la serena trasparenza formale giunge all’ascolto come evidenza di necessità oggettiva, che già si pone al di là dell’appello di parteggiare per questa o per quest’altra poetica.
Anche se Berio ha persistito nell’abitudine di fornirci a ogni nuova occasione ragguagli esplicativi sui concetti che guidano alla comprensione della sua composizione, la sua musica è stata la sola in condizione di poterne fare a meno. Come nelle sinfonie di Haydn non è indispensabile essere consapevole della forma sonata che ne regge l’impianto per orientare l’ascolto, in quanto l’identificazione della forma riguarda l’ascolto solo a livello critico, così i procedimenti compositivi messi in opera da Berio non interessano che in sede di rilettura.
Non v’è spazio nelle composizioni di Berio per sovrastrutture capaci di concentrare quella tipica qualità di messaggio per cui la musica dovrebbe porsi come veicolo di urgenze ideali; condizione espressiva non solo da sempre in agguato dietro le esperienze d’avanguardia, ma pure agente nel confronto permanente di essa musica con una matrice culturale ovviamente ineliminabile dalla coscienza. Orbene l’esperienza di Berio perviene a un tale grado di immunizzazione di fronte a tali tentazioni da permettersi, nella riduzione alla materialità del suono, la capacità di individuare immediatamente ampia formulazione di discorso. Tale fenomenologia non è senza dubbio un fatto suo peculiare ma, mentre altrove la riduzione ai nuclei genetici sembra coinvolgere un processo paralizzante con esiti spesso angosciosamente disarticolati, nella musica di Berio l’intuizione dell’elemento costitutivo, prima ancora di valere come evidenza demistificante a fronte di sovrastrutture ideologiche, si prospetta come capacità formativa di nuove progettazioni. La sorgente di suono, che nella Sequenza VII produce un si naturale come corda d’arco tesa sotto la curva fantasiosamente frastagliata dell’oboe, può rimanere anonima e invisibile senza correre il rischio di sfumare in alone magico, poiché la monodia dello strumento solista, prima ancora di tentare voli ad alta quota, è chiamata a fare i conti con il peso specifico timbrico dell’oboe, emancipato (in particolare, nel caso di Heinz Holliger, grazie anche alla sua maestria) non solo di fronte alle convenzioni di tecnica esecutiva, ma soprattutto dalle poetiche dell’allusività. Se poi in questa sede assistiamo all’affacciarsi della componente gestuale, essa, nei rapporti di spazio integrati a quelli temporali, chiarisce ancor meglio l’àmbito di diretta comunicazione. Non a caso la carica gestuale scoppiava per la prima volta in Circles (1960), consentendo alla voce solista non solo di infrangere l’obbedienza alla convenzionale stilizzazione del gesto della cantante, ma soprattutto di integrarsi al tessuto timbrico della percussione e con disinvolta operazione mimetica di riscoprirsi agente sonoro equiparabile con uguali diritti a qualsiasi altra fonte, senza privilegi, come dato oggettivo.
Oggettività che, pur negando le ipoteche storiche, non ha misconosciuto le risorse accumulate dalla pratica strumentale intesa come serbatoio di esperienze. È infatti al cristallino tocco scarlattiano di Anthony Di Bonaventura che occorre far risalire l’idea formante di Points in the curve to find... (1974) per pianoforte e ventidue strumenti. Dall’iniziale cellula di dieci note, in formazione proporzionalmente distribuita in modo da suggerire vari gradi di periodicità, vi prende avvio un incessante movimento di tremoli, vero precipitato di un’arte dell’ornamentazione fondata, anziché sul disegno arabescato, sulla fulmineità dello stimolo acustico. Di qui la prospettiva di una timbrica apertura a ventaglio sul cangiante tessuto orchestrale che, dal semplice raddoppio della linea solistica, giunge ad articolarsi in linee divaricate rispetto alla linea principale, in un processo chiaramente leggibile di movimenti di andata e ritorno, di contrazioni sul filo conduttore e di polarizzazioni su piani multipli capaci di coagulare energie all’esterno del febbrile vettore pianistico, determinando una dinamica efficace e imprevedibile nonostante l’elementarità del principio. Ciò che potrebbe rimanere esposizione dimostrativa di una semplice formula compositiva non solo trova modo di moltiplicarsi in soluzioni aperte addirittura verso un ciclo senza termine, ma concede spazio perfino a mirabolanti guizzi di fantasia, come attestano, passaggio fra i molti, le scattanti volute del flauto a p. 34 della partitura. La multidirezionalità a cui le linee strumentali conducono di volta in volta la sgranata linea pianistica, costretta a mutare di senso secondo le interazioni, suscita un’allettante lettura in termini di metafora della nostra condizione di rapporto col mondo, dove la mutevole somma delle informazioni stabilisce piani diversi di prospettiva in cui la stabilità dei valori può valere solo come ipotesi.
Luciano Berio e Cathy Berberian
In verità di questa acquisizione concettuale Luciano Berio s’è fatto portatore in modo a tal punto convinto da accettare un’apertura senza preconcetti su qualsiasi fenomeno sonoro che riesca a dimostrare vitalità. Di qui la sua attività di trascrittore a cui abbiamo accennato, sempre più chiaramente motivata come atteggiamento di appropriazione cresciuto come necessità di orientamento attivo nel concetto attuale di coesistenza di modi d’essere e di espressione. Benché probabilmente nati dall’occasione di fornire un vestito multicolore all’abile trasformismo vocale di Cathy Berberian, i Folksongs (1964) rappresentano qualcosa di più della ricognizione in una regione esotica. La categoria dell’esotismo non può aver senso per Berio nella misura in cui egli è consapevole dell’annullamento delle distanze acquisito dalla condizione odierna. In Folksongs infatti la sorpresa della tipicità di date inflessioni vocali scompare in un contesto dove essa è riformulata invece come accettata differenziazione di un discorso in cui la discontinuità vale come punto di partenza, come principio di aderenza a una realtà incodificabile. Anche qui il canto popolare è colto non già in proiezione diacronica nell’àmbito di riduttivi significati settoriali, bensì nella visione sincronica di una compenetrazione che ne consente il recupero come materiale da cui dedurre elementi formativi per un discorso globalizzante. Probabilmente la piacevolezza di vere perle melodiche quali l’“Azerbajian Love Song” vi ha trattenuto il compositore dall’intervento profondamente riformulante sulla struttura originale, ma in generale nell’intera serie si può sorprendere l’alto grado di maestria in una strumentazione riportata al senso dell’operazione deduttiva che, nell’evidenza del processo presentato come ipotesi, giustifica l’assunto della dilatazione dei confini della coscienza musicale che l’esperienza contemporanea ha ormai attuato e di cui consapevolmente non resta che prendere atto.