• Diario d'ascolto
  • 19 Aprile 2016

    Lutero e l'origine della musica borghese

      Carlo Piccardi

    In un poema del 1523 Hans Sachs descrisse l’opera riformatrice di Lutero come il canto dell’«usignolo di Wittenberg».

     

    La metafora non è generica e riflette l’importanza dello spazio aperto alla musica nella prospettiva del protestantesimo.
    Lutero stesso ricordava come, già da fanciullo, la sua voce fosse ammirata e come amasse passare il tempo cantando in compagnia degli altri ragazzi.

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    Sappiamo quindi che possedette in seguito una gentile voce di tenore, mentre con disinvoltura gli era dato di esibirsi sia al flauto sia al liuto: nelle Tischreden non mancano i riferimenti alla pratica liutistica e al canto collettivo.
    Tale esperienza fu sicuramente fondamentale nella concezione luterana che seppe integrare la musica al culto al di là di ogni possibile riserva sul grado di profanità e sulle tentazioni subdole dell’espressione musicale. Anzi proprio nel giudizio sul significato da attribuire all’arte dei suoni è possibile cogliere in profondità la differenza concettuale tra luteranesimo e calvinismo.

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    Per Calvino infatti – così leggiamo nell’epistola al lettore dell’edizione ginevrina della Forme des prières et chants ecclesiastiques (1542) - la musica è definita uno strumento di voluttà per cui «d’autant plus devons-nous regarder de n’en point abuser», cercando di sfruttarla nella «vertu secrette et quasi incredible à émouvoir les cueurs en une sorte ou en l’autre; pourquoy nous devons estre d’autant plus diligens à la reigler en telle sorte qu’elle soit utile et nullement pernicieuse». Sappiamo poi a quale grado di mortificazione la musica sia stata ricondotta nella pratica dei salmi calvinisti, ancella della parola al punto da annullarsi in formule impersonali.

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    Al contrario Lutero, impegnato fin da principio a contrastare la tendenza iconoclastica del movimento protestante in Germania, vedeva nell’arte – e soprattutto nella musica – l’espressione della gioia della fede, un atto fondamentale di comunicazione non da integrare come semplice ornamento della liturgia, ma da riconoscere come base dell’attività comunitaria restituita al suo più alto grado di responsabilità. Considerando la musica un «dono di Dio» egli la pose accanto alla teologia e le riservò le più alte lodi.

    A questo punto è importante considerare due aspetti apparentemente contrastanti della concezione musicale di Lutero.
    Il primo è costituito dall’idea di una musica riportata alla misura dell’intonazione popolare (strumento della comunità in grado di coagularne il pensiero collettivo in espressione spontanea): «sia il testo sia le note, l’accento, la melodia devono derivare dalla lingua madre e dalle sue inflessioni». In questa direzione Lutero stesso compose e arrangiò melodie popolari adattate ai testi delle nuove preghiere.

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    Sennonché la sua anteriore esperienza di agostiniano l’aveva messo in contatto con la grande arte polifonica del tempo, con Ludwig Senfl in particolare e soprattutto con Josquin Desprez, ascoltato a Roma come una specie di rivelazione e rimasto sempre fra le personalità a cui il riformatore non mancò mai di assicurare manifestazioni di alta stima.
    È significativo tra l’altro che le accuse alla degenerazione e al lusso della chiesa di Roma non coinvolgessero direttamente la musica, la quale svolgeva pur sempre una funzione di pompa esteriore al punto che il Concilio di Trento (nel processo di revisione della posizione cattolica) si trovò a doverla mettere in causa, affrontando il rischio di umiliarla con provvedimenti più severi di quelli già adottati dagli stessi calvinisti. In campo musicale al contrario la posizione di Lutero si dimostrò più conciliante di quanto non si creda: come non fu abolito immediatamente l’uso del latino, così rimase la pratica del canto romano.

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    Inoltre i 38 numeri che compongono il Geystliche Gesangk Buchleyn, cioè la prima raccolta di melodie religiose curate da Johann Walter con la supervisione di Lutero e pubblicato a Wittenberg nel 1524, presentano una fisionomia indubitabilmente polifonica nella disposizione a tre e a cinque voci, mentre la fioritura del mottetto corale protestante (grazie a Walter, Martin, Agricola, Eccard, Hassler, Vulpius, Lechner, ecc.) rivela la legittimità dell’ideale ‘figurale’ nella nuova prospettiva religiosa.

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    Nel duplice atteggiamento di Lutero possiamo cogliere quindi la soluzione del contrasto che da un lato tormentò sempre i calvinisti (con una musica costretta entro schemi dirigistici incapace di affermarsi in una propria autonomia artistica) e i cattolici (incapaci di riprodurre attraverso lo sviluppo magnificente delle forme musicali tardorinascimentali e barocche il livello partecipativo della coralità popolare).
    Da un lato la necessità del coinvolgimento dei fedeli rese attento Lutero al problema di una matrice espressiva che riportasse la musica in sintonia con l’umile coscienza individuale, dall’altro la possibilità di elevazione delle più articolate forme artistiche lo indussero a incoraggiare l’attività delle scuole corali e delle Kantoreien dedito a quello sviluppo musicale intensivo che preservò la chiesa luterana dalla sterilità artistica del calvinismo.
    Sappiamo quale ne fu il risultato: Schütz, Bach e una grande tradizione che conobbe un’evoluzione lineare senza dover subire il contraccolpo delle correzioni di rotta (il Cecilianesimo ad esempio) che per altre confessioni significarono reazione in base alla presa di coscienza di essersi allontanate dalla retta via.

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    Ma un’altra conseguenza ben maggiore ebbe la concezione musicale luterana. Se, al di là del quadro storico religioso, è giusto ricordare l’importanza di Lutero come creatore della moderna lingua tedesca (anche se varie revisioni del giudizio negli ultimi decenni ne scoraggiano l’assolutizzazione), è altrettanto legittimo sottolineare la sua responsabilità nel definire le basi sociali e culturali della musica tedesca com’essa si è sviluppata negli ultimi secoli, da una parte appunto come pratica individuale e collettiva coltivata fino al più alto grado di maestrìa e dall’altra come espressione non già esemplata su modelli esteriori e simbolici, ma collaudata in base alle profonde ragioni del sentire.
    Ne fa specie il Lied, non a caso cresciuto nella Germania del nord protestante nel XVIII secolo, il quale, nella qualità lirica derivante da una voce non solo sciolta dal peso di artificiose ornamentazioni, ma pure dai vincoli di una scrittura formalizzante, si distingueva dal modello vocale italiano opponendovi la realtà di un mondo espressivo radicalmente diverso.

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    La magnificenza della melodia vocale italiana si accontentava di dispensare la propria luce aurea attraverso la varietà di passaggi e diminuzioni che, come monili, ornavano il prorompente petto di questa grande signora: fino a Puccini la vocalità italiana continuò a sentirsi e ad atteggiarsi a regina.

    Ora, mentre in Italia modelli musicali alternativi alla tradizione aristocratica mai videro la luce, il mondo tedesco (soprattutto quello protestante), attraverso la partecipazione del popolo ai canti della liturgia riformata, aveva motivato una pratica musicale perlomeno complementare.
    Il corale, oltre alle qualità già descritte, dal punto di vista del rispetto del testo (sempre rimasto un pretesto nella musica vocale italiana) realizzava un modello di disciplina musicale compiaciuta nella sua umiltà.

    Due secoli dopo nacque appunto il Lied, che dal corale si distingue solo per il fatto di mettere radici su terreno laico: per il resto esso fa riferimento allo stesso popolo emancipato (alla borghesia) e alla stessa disciplina di rispetto della parola nel canto che una classe forte e cosciente del proprio ruolo preservò contro ogni influenza di moda e tradizione.
    Il Lied è certamente il primo fenomeno borghese (rimasto integralmente borghese) della storia della musica; al punto che sarà nel Lied (corrispondente laico del corale) che nella forma più tragica e sofferta lascerà il suo segno la crisi di quella civiltà.

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    Se la Zauberflöte mozartiana può essere considerata uno spartiacque nel senso di schiudere all’opera prospettive svincolate dai modelli aristocratici ormai arcaici (inducendola a calarsi nella realtà della moderna coscienza del sentire) ciò è dovuto all’assunzione della vocalità liederistica giunta a mettere fuori causa l’adorna configurazione dell’aria melodrammatica. Parimenti non c’è sinfonia che abbia maturato la consapevolezza del tramonto del sistema dei valori borghesi meglio della sinfonia mahleriana la quale, appunto in virtù del trasferimento a dimensione sinfonica del patrimonio liederistico, riuscì a penetrare al più profondo livello di quella problematica.

    Al di là della componente religiosa un filo tutt’altro che sottile collega dunque la sobria enunciazione del corale luterano con l’essenza della musica successiva al classicismo, consentendo di meglio riconoscere e confermare quel filo rosso svelato da Max Weber in uno dei suoi maggiori trattati (L’etica protestante e lo spirito del capitalismo) ad ulteriore dimostrazione dell’enorme irradiamento storico-culturale dell’esperienza del grande riformatore.

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