“Mahagonny” e l’estetica del Song
La collaborazione tra Bertolt Brecht e Kurt Weill iniziò con una specie di assaggio delle rispettive capacità nel «Songspiel» Mahagonny,
una forma sintetica e riduttiva di teatro da camera che delineò con perfetta chiarezza i princìpî della concezione «epica», diffusamente illustrata dal drammaturgo proprio in occasione della rielaborazione del primitivo «Songspiel» nella versione ampliata e interamente musicata dell’Ascesa e caduta della città di Mahagonny (1928-29).
Sebbene già dal 1930 in poi Brecht avesse sviluppato le sue idee teatrali oltre i modelli conseguiti attraverso l’esperienza con Weill, fu a contatto con il musicista che egli chiarì definitivamente le funzioni separate e distinte degli elementi chiamati in causa dal «teatro epico» (testo, musica, immagini, ecc.). Kurt Weill infatti, uscito dalla scuola di Busoni ed avviato verso non ben precisate posizioni d’avanguardia, immediatamente attirato dal teatro in musica per conto suo già aveva avvertito la necessità di ripensare la funzione teatrale di una musica non più disposta ad esplicare il suo compito come espressione risolta nell’interiorizzazione psicologica a cui nemmeno gli esempi più avanzati di Berg, di Krenek e di Hindemith in Germania, pur avendo rotto con innumerevoli convenzioni, riuscirono a sottrarsi.
Con Brecht il compositore perfezionò l’idea di far spazio nel teatro alla canzone intesa come mezzo capace di trasferire nella rappresentazione il gesto, il comportamento sociale analizzato nelle sue implicazioni di «rapporto fra uomo e uomo». Già da quasi un decennio la canzone era servita ad altri musicisti a trovare nuove formule di emancipazione dal ruolo introspettivo a cui la musica nella sua fase tardoromantica sembrava condannata.
Il tentativo più vistoso in questa direzione fu tentato dai parigini del Gruppo dei Sei, i quali però si accontentarono di cambiare l’arredamento di una scena che veniva pur sempre offerta al pubblico in contemplazione stimolata da un apparato sensazionalistico ma sempre irresponsabile nell’incapacità di guidare il giudizio tra i riferimenti sociali implicati. Gli squarci di realtà che i motivi di strada di Poulenc e di Milhaud avevano trasposto nelle loro più polemiche composizioni riuscivano forse a situare una sensibilità capace di avvertire i fermenti vitalistici della condizione di civiltà di massa dischiusa dal nuovo secolo, ma nel loro meccanico rispecchiamento si adagiavano a subire il fascino della situazione di urbanesimo avanzato senza saper opporgli la riflessione sulle conseguenze sociali e morali implicate.
La musica composta da Weill per Brecht al contrario è stata forse la sola nel nostro secolo a trovare la chiave di un linguaggio in cui si riflettesse direttamente la natura di nuovi rapporti sociali e nello stesso tempo la coscienza della loro fondamentale inautenticità. La scossa provocata dai futuristi che per primi spalancarono le finestre dell’arte sul mondo di ferro e d’asfalto, organizzato dall’energia elettrica e dalla meccanizzazione, prolungava ancora negli anni venti il fascino della civiltà industriale vista come liberazione dagli idìlli e da sterili fantasie mitologiche ed esaltata nelle sue componenti di progresso e di frenetica conquista del futuro.
Kurt Weill fu il primo ad affrontare di petto la nuova realtà senza modellare il ritmo della sua musica sugli ansimanti stantuffi della macchina a vapore e sull’assordante fragore del traffico urbano. La sua musica sfugge invece al passato frequentando le bettole più equivoche, solcate dalle notturne luci sinistre dei quartieri portuali, le mense proletarie in cui si serve la minestra dell’Heilsarmee, sull’orlo del crollo di tutte le metafisiche. La musica di strada cioè non entra indistintamente nelle sue composizioni, ma vi mostra il suo volto più degradato sull’accento stanco di ballabili sgangherati, fra le note dei musicanti dilettanti che assistono alla morte per indigestione di Jakob Schmidt compianto dagli amici con una polifonia che mescola la pietà religiosa al canto di osteria, con la triste allegria circense che accompagna la fatale partita di boxe tra Alasky-Wolf-Joe e Trinity-Moses, tra l’incalzante ritornello a ritmo tagliente di shimmy in cui si proclama la formula non mai logora della morale materialistica. Nei suoi song la canzone viene smontata fino, a scoprire il suo meccanismo adescante, consegnandosi come relitto fra orpelli di decadimento che ribaltano in negativo lo splendore del suo effimero scopo.
Ma il song è anche qualcosa di più. Esso diventa l’intuizione di un’espressione emancipata dal riferimento accademico dell’aria operistica e dell’argomentato discorso orchestrale, a cui invece si attennero coloro che si appropriarono della canzone credendo di nobilitarla in una specie di poema sinfonico dei tempi moderni. Il song di Weill è un’autentica invenzione formale con una propria logica di svolgimento che trasfigura lo schema prosaico del ballabile in una struttura complessa, dove il modello è sottoposto a un continuo confronto dialettico con la miserabilità della sua primitiva funzione, così da ridurlo a gesto di denunciato comportamento sociale.
Nel modo più disincantato e corrosivo Kurt Weill ha fornito la dimostrazione consapevole che «la musica non è un’arca sulla quale ci si possa salvare dal diluvio» (Brecht).