MICHELE STRANIERO E I "CANTACRONACHE"
Nel 1958, quando Michele Straniero (1936-2000) con Sergio Liberovici e Fausto Amodei diede vita ai “Cantacronache”, il riferimento non era alla canzone di consumo, di puro intrattenimento, ma alla canzone di testimonianza e di denuncia, «di protesta» come si diceva, in una prospettiva di contrapposizione all'organizzazione industriale dell’evasione che in Italia culmina ancora emblematicamente nel Festival di Sanremo.
Fu una stagione breve ma rigogliosa, che venne a coagulare in modelli riconoscibili in una loro specificità varie tradizioni sopite: quella popolare (del folclore) di origine contadina, quella della chanson francese (di George Brassens, di Jacques Brel, di Leo Ferré) che in qualche modo aveva dimostrato la possibilità di trasferire anche nel contesto moderno urbano la dimensione epica della ballata popolare, e quella del teatro brechtiano (giunto in Italia qualche anno prima).
Nel contesto italiano di quegli anni, caratterizzati da un'aspra contrapposizione, sindacale, culturale fra destra e sinistra, questa canzone si profilò con una chiara determinazione politica, forse anche per questo segnando anche la sua fine avvenuta con il mutare dei rapporti di forza nei successivi equilibri consociativi.
Nel 1958 nel mondo avvenivano svolte importanti: a Cuba vinceva la rivoluzione di Fidel Castro, la Francia affidava la presidenza della repubblica a De Gaulle, in Vaticano Giovanni XXIII saliva al soglio pontificio, sullo sfondo di una guerra che si combatteva ancora in Algeria, di crescenti moti di liberazione nel Terzo Mondo che in Occidente cominciavano a mobilitare le piazze in segno di solidarietà. A questa militanza i “Cantacronache” fornirono le prime canzoni di protesta, un punto di identità. Lo fecero riscoprendo il filone dei canti della Resistenza partigiana, in un’Italia i cui poteri erano interessati a oscurare la memoria di questa importante fase fondativa della repubblica.
A “Cantacronache” furono associati scrittori e poeti (Italo Calvino, Franco Fortini, Umberto Eco, Giovanni Arpino, Franco Antonicelli, Gianni Rodari), musicisti (Fiorenzo Carpi, Giacomo Manzoni, Piero Santi, Valentino Bucchi), impegnati a riscattare le banalità della canzonetta italiana in competizione con il grande modello francese degli Aragon, dei Prévert, dei Queneau che avevano tenuto alto il livello della canzone transalpina. Fu una stagione intensa che lasciò un segno anche per quanto riguarda la svolta sanremese degli anni Sessanta, con l'apparire dei cantautori (Gino Paoli, Umberto Bindi, Luigi Tenco).
La cantante Margot, pseudonimo di Margherita Galante Garrone
A Michele Straniero va soprattutto il merito di aver legato questa esperienza, collaudata nei salotti torinesi di Giulio Einaudi e di Carlo Galante Garrone (la cui figlia col nome di Margot fu la prima donna ad aderire al gruppo), al vero canto del popolo di cui si fece assiduo indagatore.
Nel volume con allegato CD pubblicato insieme a Emilio Jona nel 1996 (Cantacronache un avventura politico-musicale degli anni cinquanta), in cui è tracciato il bilancio di quell’esperienza, egli stesso ricorda come, dopo tanto vani quanto illusori tentativi di farsi accettare dall’industria discografica, nei giri presso i circoli operai e le organizzazioni di partito cantando le tredici proverbiali canzoni del loro spettacolo, l'esito più importante fu quello di ridestare nel pubblico la memoria delle canzoni urbane (politiche e di lavoro) anteriori al fascismo: “eravamo pronti, davanti a un bicchiere di vino e a una tavola imbandita, a ricordare. Vennero fuori così Le otto ore, La Maria Gioia, Vi ricordate del 18 aprile (sulle elezioni politiche del 1948 perse dal Fronte Democratico Popolare e vinte dalla Democrazia Cristiana) e tanti altri testi che decidemmo di pubblicare - in originale o ricantati - in una nuova collana di dischi, battezzata Canti di protesta del popolo italiano”.
Italo Calvino negli anni '50
Di lì si diramò una vasta ricerca di testimonianze, anche minute e aneddotiche (come i canti parrocchiali), ma che consentì a Straniero di calarsi a fondo nei modi espressivi del popolo. Anche quando (dopo il 1962) le ragioni di aggregazione del gruppo vennero meno e i suoi esponenti si dedicarono a iniziative separate, egli consolidò la sua scelta mirante a fare da ponte tra la tradizione del canto popolare (in gran parte sotterranea ed emarginata) e la nuova realtà urbana, servita a senso unico dall'edonismo delle canzoni di consumo. Per lui e per i “Cantacronache” più che mai vale il concetto formulato da Ernesto De Martino come riconoscimento del folclore progressivo, cioè del “dramma collettivo vivente del mondo popolare in atto di emanciparsi non solo socialmente ma anche culturalmente”. Da quel ceppo veniva l'accento accorato delle sue intonazioni (cariche di senso di vissuto), ma anche il profilo tagliente della sua voce che non si incrinava mai di fronte al ricatto sentimentale e che stagliava la speranza dell’emancipazione dell'uomo dai limiti che gli erano imposti dalla società, con un piglio profetico, quasi messianico, forse da far risalire alla sua formazione cattolica.
Michele Straniero, Giosetta Dallò e Ivan Della Mea
Alcune canzoni dei “Cantacronache” sono rimaste nella memoria collettiva: fra tutte Dove vola l’avvoltoio? di Calvino e Liberovici. Ma se essa si è imposta è dovuto anche al canto di Michele Straniero che giungeva non come espressione di uno stato d'animo, ma come enunciazione di un’idea, come una sferza, la cui venatura oscura caricava il messaggio di premonizioni. Indimenticabile rimane soprattutto La zolfara, suscitata dagli <<Omicidi bianchi>> nelle solfatare siciliane ed entrata subito nel repertorio di Ornella Vanoni. Nel suo testo messo in musica da Amodei, che egli intonava con compunzione liturgica, il finale, con il Cristo giudicante che beatifica le vittime e distrugge col fuoco la miniera, nell'evocazione biblica riflette appieno il respiro epico delle sue creazioni.
Nel 1964 con Emilio Jona, Sergio Liberovici, Giorgio De Maria lo troviamo fra gli autori de Le canzoni della cattiva coscienza, prefate da Umberto Eco, pubblicazione con tutti i limiti di un lavoro di impianto adorniano (per quanto riguarda il manicheismo con cui si tracciava la separazione delle espressioni autentiche da quelle “integrate”), ma significativo come tentativo di sottoporre ad analisi critica manifestazioni che fino allora non erano state ritenute meritevoli di indagine.