• Diario d'ascolto
  • 10 Aprile 2015

    Mozart, argento vivo

      Carlo Piccardi

    Nel dicembre del 2005 mi venne spontaneo di chiosare la lettera a un amico con gli auguri “di un fruttuoso 2006”, aggiungendovi ”l’auspicio che, essendo l’anno di Mozart, possa essere anche quello dell’armonia”.

    Con discrezione l’amico, che non era una persona qualsiasi bensì un importante musicologo, nella risposta non mancò di richiamarmi professionalmente all’ordine prospettando l’immagine rovesciata del Salisburghese:
    “Mozart e armonia: sì, ma più lo ascolto (e più lo amo), più mi accorgo che bella razza di nevrotico doveva essere; un mulinello, un argento vivo (intelligenza mercuriale, si dice), uno spiritello alla maniera di Puck. Bologna è invasa dal Mozart di Abbado: che è proprio così, scalpitante, ventoso, inquieto. Una bellezza per l’animo e per lo spirito”.
    Orbene Lorenzo Bianconi (di lui si trattava) correggeva opportunamente un tiro che nella circostanza avevo adottato in termini ‘fatici’, rinnovando irriflessivamente un luogo comune tuttora corrente, benché il 900 dinamico e clamoroso abbia da tempo provveduto ad instaurare un’immagine mozartiana meno solare e più consona al velocizzato vissuto degli attuali rapporti.

    In verità, al di là del fatto che i grandi (come la storia di cui fanno parte) sono destinati ad essere rivisitati permanentemente in operazioni spesso significative più per capire i destinatari del loro messaggio che loro stessi, mi sembra inevitabile che non si lascino ridurre a un’immagine univoca. Se grandi sono, è proprio per il fatto di condensare nella loro opera una ricchezza e una molteplicità di significati da cui non ci stanchiamo mai di essere alimentati. Per questo motivo il trasmutare della loro raffigurazione attraverso le epoche è motivo di interesse, essendo anche la rivelazione delle molte facce che sostanziano la loro grandezza. Certo è tuttavia che Mozart di tale trasformismo si presenta come un campione, andando da un estremo all’altro, dal più celestiale al più terreno, dal più integrato nella vita cortigiana al più estraneo alla società del tempo, dal più spontaneo nell’espressione al più mediato nelle scelte.

    Indubbiamente il tempo lavorò a suo favore. Il giudizio dell’imperatore Giuseppe II nel caso dell’Entführung aus dem Serail (“troppo note, mio caro Mozart!”) è passato alla storia come la dimostrazione dell’incompatibilità con la propria epoca, coltivata dai romantici sulla scorta degli aneddoti relativi alla sua misera fine, abbandonato in una fossa comune e nella simbolica aura del Requiem incompiuto. Sennonché a pochi viene in mente di considerare la rapida ascesa della fortuna di Mozart immediatamente dopo la morte, che portò ad esempio Gerber nel 1812 a correggere completamente le perplessità espresse nel 1790 nel suo Lexikon (“anche gli ascoltatori più esercitati sono costretti ad ascoltare le sue composizioni più di una volta”). Ciò significa che se egli fosse vissuto anche solo fino a 50 anni si sarebbe imposto su tutti, forse anche su Beethoven, per la grande capacità di tenere (come esecutore) la scena mondana. Viceversa, di fronte alla tempestosa sregolatezza di Beethoven, all’”intrico caotico”, alla “fitta oscurità”, alla “babele dei nuovissimi compositori” nella biografia mozartiana di Niemetschek (1808) è chiamato in causa il salvifico “canto segretamente sublime, luminoso, così semplice del nostro prediletto” Mozart appunto. Come sempre il tempo che rimette le cose in prospettiva è un fattore del mutamento di giudizio. I romantici vi colsero “i fremiti del terribile regno del pianto infernale” (così E.T.A. Hoffmann ascoltando l’ouverture del Don Giovanni), ma poi lo stesso poeta, di fronte al tellurico genio di Bonn, attirato nel regno degli spiriti dischiuso dal Salisburghese si sentiva invaso dal timore, “ma un timore senza tormento, che è piuttosto presagio dell’infinito”. In verità la bivalenza dei giudizi tenne duro al punto che le opere sue oggi più celebrate (Nozze di Figaro e Don Giovanni) nei primi due decenni dell’800 condividevano la fortuna con La clemenza di Tito. Anzi a Londra nel 1812 il lavoro dell’ultimo anno, ritenuto ancor oggi come il prodotto dell’accondiscendenza al gusto cortigiano impostogli dal bisogno (e in seguito emarginato), era più acclamato del Figaro, mentre cinque anni dopo nell’Encyclopedia Londoniensis il ritratto riservato al compositore lo raffigurava come eroe dell’arte comica e tragica esibendo accanto a sé come capolavori due volumi, quelli della Clemenza e di Don Giovanni. Ideale winckelmanniano e ideale shakespeariano più che contrapporsi si intrecciavano.

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    È anche vero che, a partire da come fu assunto a modello da parte di Hummel, Mozart si trovò ad essere l’ispiratore della moderazione Biedermeier, classicizzato e formalizzato al punto da indurre Albert Lortzing nel 1833 a creare un “Singspiel” non solo intitolato Scene dalla vita di Mozart ma a concepirne la partitura vocale su brani estrapolati dalle sue più celebri composizioni (dove persino il ”nemico” Salieri si trova paradossalmente ad intonare il dialogo con gli altri personaggi sulle note mozartiane). Era un modo di dichiarare che la storia della musica si era fermata a Mozart, che nella rappresentazione del suo storico destino non era possibile aprire orizzonte che la sua musica già non contenesse. Nulla di simile era mai capitato a un altro musicista, così come (benché il procedimento della parodia fosse piuttosto diffuso in passato) mai era capitato a un compositore di essere saccheggiato nelle chiese nella misura in cui lo fu. A partire dalle contrafatture ritrovate nel convento di Grissau in Slesia, dove sulle note di “Ah, che tutta in un momento” (da Così fan tutte) i frati cantavano “Alma redemptoris mater”, fu un proliferare di arrangiamenti che, a dispetto della disponibilità di molta musica espressamente liturgica scritta da Mozart, preferivano attingere alla mondanità e alle scabrosità del suo teatro, al punto che i benedettini del convento bavarese di Scheyern nel 1827 ricavarono dal Don Giovanni una Missa solemnissima, senza farsi scrupolo del substrato demonico del modello.

    Era quello l’indice della pulsione vitalistica presente nella sua musica, in grado di superare ogni prescritta regolamentazione, di scardinare il sistema dei confini espressivi, dei generi, e soprattutto la psicologia nella capacità di dettare i rapporti e i comportamenti. Il teatro ne fu il luogo deputato, che lo vide percorrere in pochi anni un cammino che, dall’emblematica natura dei personaggi tutti d’un pezzo dell’opera seria italiana esaltati nella didascalicità dei ruoli dettata dall’”Affektenlehre”, dilatava la gestione intrecciata dei loro destini nei grandi finali de Le nozze di Figaro come affresco di follia collettiva, ma soprattutto di interdipendenza delle azioni e di sfuggente dimensione della coscienza che, nell’instabilità covata in uno stesso animo (il “foco” e il “ghiaccio” a produrre il tremito androgino e adolescenziale di Cherubino), operavano per la prima volta attraverso la musica la discesa nell’animo umano allo stadio della sua pura resa all’esistenzialità, liberato dai vincoli sociali, culturali, religiosi. Nel teatro di Mozart tali rapporti subiscono una vera e propria rifondazione partendo dalla centralità dell’individuo emancipato nella sua sensibilità che, oltre a sciogliere la vasta gamma delle sue emozioni, trova coronamento in momenti canonici quali lo sbalorditivo finale delle Nozze in cui il tempo è fermato nella stupefacente apparizione della contessa, in una benedizione assolutoria (di grazia dispensata a cancellazione delle colpe conseguenti all’irresponsabile intreccio dei casi umani nella commedia), di taglio addirittura liturgico per la celestiale forza di elevazione e il senso di assoluto che promana, non già in nome di una religione istituita ma della religione della felicità, una religione naturale che (nei termini della settecentesca “Pursuit of Happiness” come ha rilevato Massimo Mila) richiamava l’uomo a ritrovare l’autenticità della propria condizione originaria, anteriore alle sovrastrutture della civiltà.

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    Non a caso la musica di Mozart ha intrigato profondamente i pensatori, tra cui Kierkegaard il quale ne ricavò una teoria dell’amore, dove al primo stadio erotico è identificato il paggio Cherubino (del desiderio non ancora espresso ma presentito malinconicamente). Nel secondo stadio vi troviamo Papageno risvegliato nel desiderio ma incapace di approdare a un oggetto cui riferirlo, poiché aperto sul molteplice, affrontato con gioiosità pura, senza scopo. Sennonché al terzo stadio il filosofo danesenon colloca Tamino, che solo idealmente come rappresentante dell’amore coniugale (etico) gli toccherebbe, ma che in realtà non vi può assurgere in quanto figura drammatica amusicale (“il suo flauto serve  solo a scacciare il tempo, o meglio, i pensieri”). È Don Giovanni ad occupare il terzo stadio come trionfo del desiderio, di una sensualità che esalta “l’infinità della passione, e nello stesso tempo la sua sconfinata potenza”, “il selvaggio ardore del desiderio, ma nello stesso tempo la sua assoluta invincibilità”, direttamente rappresentata in musica, e in musica solo rappresentabile. Don Giovanni è il movimento puro: “lo vediamo sempre mentre va in caccia e si dilegua, proprio come la musica, che è passata non appena il suono si estingue, e rinasce solamente col suono”.

    In questo quadro Mozart, che certamente recava il marchio del secolo dei lumi, assecondando il primato della ragione come risorsa fondamentale al conseguimento della felicità, si spingeva oltre il razionale, non solo nel demoniaco da cui la generazione romantica si sentiva scossa, ma soprattutto nella dimensione psicologica liberata dai tabù sociali e culturali all’inizio del processo che storicamente porta alla psicoanalisi. È qui che cogliamo la sua penetrazione nei recessi della psiche dell’uomo moderno, confrontato con le ansie della conseguita libertà, responsabile verso se stesso, condizionato tanto dalla certezza quanto dal dubbio. È anche la ricerca dell’equilibrio tra spirito e corpo, maturata nella relazione (su cui è stata recentemente attirata l’attenzione) con l’amico medico Mesmer, da alcuni considerato come uno degli scopritori dell’inconscio e delle malattie psicosomatiche. È ciò che spiega l’attualità del suo teatro e che sulle scene moderne garantisce alle sue opere la presenza ragguardevole condivisa con i prodotti della generazione romantica da cui direttamente dipendiamo, ma non con quelli dei coevi compositori settecenteschi che rimangono relegati in un passato per noi remoto.

    Ripercorrendo il suo corso creativo potremmo dilungarci a mettere in evidenza l’ardito esempio di indipendenza sociale dell’artista conquistata nella consapevolezza della dialettica di classe (palesata nella scena della festa al termine del primo atto di Don Giovanni, che balla il nobile minuetto con Donn’Anna, la borghese contraddanza con Zerlina e la paesana ‘Deutsche’ con Masetto), la capacità rielaborativa degli stili musicali in seguito all’esperienza cosmopolitica nelle capitali europee, la sintonia con le idee di progresso nel respiro illuministico che lo indusse ad aderire alla massoneria, l’essersi spinto col Singspiel a riconoscere dignità all’espressione popolare al punto da inaugurare il filone nazionale tedesco, la profonda dottrina maturata col magistero di Padre Martini e con la rivisitazione di Bach, e via dicendo. Fra tutte le qualità spicca sicuramente la sua umanità divisa tra gioia e malinconia, tra chiaro e scuro, l’animo instabile capace di trovare in se stesso le forze che lo orientano nel mondo senza dipendere da comportamenti prescritti, in una parola quelle componenti corrispondenti al grado emancipato della nostra condizione moderna che pour cause ce lo fanno sentire come un nostro contemporaneo.  

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