MUSICA IDEOLOGICA: IL CARMEN SAECULARE DI PHILIDOR
Tutti sappiamo che Mozart compose opere massoniche (Maurerische Trauermusik K 477, ecc.). Sappiamo che il Flauto magico è addirittura un programma della massoneria che, nella solennità ieratica delle scene al tempio di Sarastro, conquista una cifra musicale sua. Più difficile è individuare il percorso che, attraverso almeno un secolo di esperienza, porta a tali esiti di Mozart. Una tappa intermedia può essere individuata nel Carmen saeculare di Quinto Orazio Flacco messo in musica da François-André Philidor, presentato nel 1777 alla Freemason’ Hall di Londra, eseguito nel 1780 a Parigi e innumerevoli volte altrove in distinte cerchie massoniche, fino in Russia per interessamento di Caterina II, dedicataria dell’edizione a stampa: fu lei a pagare le spese della prestigiosa edizione in rame della partitura pubblicata a Parigi nel 1788.
Sul frontespizio, arricchito da riproduzioni di statue e di bassorilievi classici raffiguranti Diana cacciatrice, Apollo Sauroctono e il carro solare, spicca inoltre il suo ritratto di profilo, affiancato da quelli di Orazio e di Philidor. La dedica in forma di epigrafe marmorea la saluta con appellativi che si collegano al protocollo imperiale romano: «KATARINAE / AVGU[VSTAE] PIAE FELICI / OTTOMANNICAE /TAVRICAE / MUSAGETAE …», con allusione alle sue campagne militari contro i Turchi e i Tartari della Crimea (la mitica Tauride) nonché al suo decantato ruolo di protettrice della cultura.
Il testo oraziano era colto in relazione ai ludi saeculares, indetti dall’Imperatore Augusto per celebrare le divinità tutelari di Roma. Ecco quindi che, con quest’opera, il massimo tempio dell’ordine massonico inglese si ritrovava analogamente a lasciar risuonare inni ad Apollo e a Diana che, con diversa musica in lontano passato il terzo giorno dei ludi, erano stati intonati nel tempio di Apollo sul Palatino in cui erano custoditi i libri sibillini.
Gemma augustea. Kunsthistorisches Museum. Vienna
L’opera di Philidor apriva una finestra su quell’età aurea, sul senso di comunitaria partecipazione a un’armonia di rapporti, sulla luminosità dei simboli fecondanti i semi di una vita chiamata a seguire la strada della virtù. Anni dopo lo storiografo Charles Burney avrebbe scritto che l’opera «was attended by all persons of learning and talents, in expectation of a revival of the music of the ancients, and by many, of its miracolous powers». In verità una precisa intenzione restaurativa era nella mente di Giuseppe Baretti, lo scrittore esule dall’Italia per motivi politico-letterari emigrato a Londra e promotore di questa singolare iniziativa che, alla ricerca di un degno maestro adatto a rivestire di suoni il testo oraziano, lo identificò nel compositore francese:
«Io cercavo una persona non solo dotata di una grande conoscenza della musica, ma anche disposta a condividere in pieno le mie idee. Avevo deciso, in ogni caso, che dovevano essere evitati tutti i luoghi comuni e i passaggi che, chi è abituato alle opere italiane, ha ripetutamente ascoltato e può anticipare nella propria mente non appena la prima battuta esce dalla bocca del cantante; né volevo permettere a un maestro di cappella di offrire ad un cantante troppe occasioni di suddividere una vocale in mille parti, come se egli volesse emulare il migliore dei violini o l’usignolo più selvatico» (Joseph Baretti, The Introduction to the Carmen saeculare, Londra 1779).
Giuseppe Baretti
Il discorso è chiaro e apparirebbe persino scontato da parte di un letterato, nel suo allinearsi ai preconcetti diffusi nell’ambito intellettuale nei confronti dell’edonismo operistico italiano, se non fosse per l’esplicita dichiarazione di incompatibilità tra la moderna e predominante sensibilità musicale e la testimonianza artistica di illustre latinità che lo impegnava nella ricerca di un modello musicale consono e tutto da creare: «In breve, io volevo un uomo di buon senso, un uomo di gusto, un entusiasta, fecondo di idee e di inventiva, e capace di temperare la solennità della musica da chiesa con lo splendore della musica teatrale».
Ciò evidenzia il valore sperimentale dell’operazione, in cui si rifletteva l’insoddisfazione verso la musica profanizzata del tempo e il tentativo di mettere a punto una nuova forma espressiva che, preservando con la spettacolarità i risvolti didascalici, li fecondasse di aura sacrale. Più che significativo è il fatto che la presentazione dell’ode a Londra il 26 maggio 1788, davanti alla nobiltà e alla famiglia reale, avvenisse in forma rappresentativa con costumi all’antica, come il compositore stesso testimoniò in una lettera alla moglie (26 maggio 1788):
«Il y aura des décorations dans le Panthéon, où l’on verra dans le fond un soleil éblouissant, une statue d’Apollon formant un autel, une Cerès et une Diane. Les chanteurs seront habillés et les 27 jeunes filles et les 27 garçons seront en comparse dans l’orchestre sur le devant formant spectacle».
Philidor fece dunque al caso, benché la sua partitura non andasse del tutto esente dalla tentazione di qualche infiltrazione di virtuosismo vocale (come l’aria tenorile «Roma si vestrum est opus Iliaeque») e da una festosità soverchiamente squillante nel finale. Il referente è riconoscibile allo stampo gluckiano, confermato in tutto e per tutto come passaggio obbligato e risolutivo della problematica neoclassica in musica. Lo si avverte fin dal prologo, dal piglio apostrofante del corifeo sulla solenne scansione di marcia ieratica e nella stupefazione del numero che segue («Spiritum Phoebus mihi, Phoebus artem»), che rispecchiano il profilo sobrio e ieratico del teatro di Gluck. Soprattutto ce se ne rende conto nell’ouverture, in primis nella condotta degli strumenti ad arco, che liberano un’alta tensione drammatica da scale precipitosamente percorrenti l’intero campo sonoro e che rimanda subito ai più spiritati episodi del suo teatro.
Vi siamo inoltre immediatamente confrontati con la terribilità di un crescendo a cui concorrono in modo fragoroso i timpani, a fissare un termine di misteriosità in cui è dichiarata la ricerca di elevatezza. Tale ouverture comprende anche una terza componente chiamata a completare, al di là della tragicità richiamata dalle due precedenti, il quadro di riferimento a una classicità che si sforza di conformarsi a ipotetiche modalità antiche. Nell’episodio centrale compare la cifra auletica nella forma di divagazione concertante che parte dal fagotto e che si estende ai flauti, significativa non solo nella misura in cui conferma una costante stilistica identificante una precisa area estetica, ma anche in quanto ricorrente nell’intera composizione.
François-André Philidor
In «Deliae tutela deae» il musicista accoglie l’esortazione ai giovani e alle vergini di declamare nella giusta misura («Lesbium servate pedem, meique pollicis ictum») un inno ad Apollo, liberando i flauti in concertato su un danzante ritmo del coro. In evidenza con gli oboi, gli stessi strumenti ricompaiono in disteso ritmo ternario nel momento eufonico dell’evocazione della musa («Doctor argutae fidicem Thaliae»), mentre la combinazione di questo insieme di fiati con i corni nell’esplicita celebrazione di Diana non sfugge alla moderna sonorità che ha fissato il topos della caccia.
Flauti e oboi tornano a intrecciarsi e a contrastarsi nel momento dell’evocazione di Cerere sul filo dell’idillio campestre, seguiti nell’episodio successivo dell’invocazione ad Apollo e alla Luna da una fluente distesa sonora in cui si annullano tutte le tensioni, di placidità programmatica, come riferimento all’olimpica altezza dello sguardo divino rivolto agli imploranti.
Nell’esplicita gara a individuare i tratti di scrittura più consoni a dar voce al classico messaggio poetico oraziano il posto di rilievo è tuttavia occupato da «Alme Sol», l’inno al sole che in un’ascensione di suoni abbagliante, nella combinazione di basso solista, coro e orchestra, approda a una cifra sonora inedita, di potenza immaginativa, evocatrice del passaggio simbolico dalle tenebre alla luce. La ritroviamo in forma spettacolarmente espansa nell’alba che illumina il finale del Guillaume Tell di Rossini, come immagine di libertà conquistata. Si tratta di poco più di un’istantanea la quale tuttavia, come la realizzazione dell’idea del caos in Les Éléments di Rebel o nella conturbante pagina d’apertura de La creazione di Haydn, si manifesta chiaramente in posizione di scarto rispetto ai tracciati stilistici obbligati, quale immagine sonora fortemente alternativa e per l’eccezionalità della forte carica simbolica. Anche se essa non è riuscita a diventare un topos paragonabile alle scene oracolari o di furia del teatro gluckiano, ne manifesta la portata per il fatto di inalberare l’emblema sonoro della luce portatrice di verità in una forma fino ad allora mai vista, corrispondente al nuovo clima ideologico instaurato dalla cultura illuministica e soprattutto dalla sua laicità.
Sul significato massonico del Carmen saeculare di Philidor non dovrebbero sussistere dubbi, non solo per i tre accordi con cui si apre l’ouverture e nemmeno per la scansione di «Alme Sol» in tre sillabe ripetute nove volte, ma, al di là dell’astratta componente numerologica, per la soluzione sonora inedita che non ha nulla in comune con i precedenti chiesastici e teatrali, e che rivela la volontà di uscire dal binario della tradizione e l’impegno a dar vita a un nuovo lessico musicale, se non proprio esemplato su precedenti storici consacrati da una civiltà tramandata, nobilitato dagli alti versi di un poeta che quella civiltà rappresenta e il suo valore di monito, come dichiarazione di rispetto dell’ordine universale riconducibile alla luce benefica dell’astro del giorno.