Musica italiana del novecento
Se volessimo accertare la consistenza detenuta dalla musica italiana del Novecento presso il pubblico, dalla morte di Puccini in poi, rimarremmo piuttosto delusi.
Alfredo Casella
Le figure di Alfredo Casella, Gianfrancesco Malipiero, Ildebrando Pizzetti, Ottorino Respighi tutt’al più vi risulterebbero ridotte a simulacro, mentre la maggiore familiarità con Luigi Dallapiccola e Goffredo Petrassi conseguirebbe alla relativa frequenza con cui se ne discute in rapporto con la generazione dei compositori della seconda metà del secolo (Berio, Nono, ecc.).
La vitalità garantita agli esponenti della tradizione operistica sull’arco che da Rossini passando per Verdi giunge fino a Puccini e a Mascagni è schiacciante, al punto da cancellare le tracce del generoso sforzo di rinnovamento che pur accomunò la “Generazione dell’Ottanta”, affidatasi troppo sbrigativamente alle speranze di Fausto Torrefranca che nel suo libello del 1912 (Giacomo Puccini e l’opera internazionale) prevedeva la caduta nel dimenticatoio dell’autore di Bohème in capo a dieci anni e il tramonto del melodramma inteso come concessione alle facili attese del pubblico cosmopolita e al sistema imprenditoriale internazionale che lo sosteneva.
In verità proprio l’aborrito melodramma, visto come testimonianza della ‘prostituzione’ dell’Italia di fronte al mondo, nella sua inossidabile capacità di parlare alle folle è sopravvissuto a tutti i tentativi di usurparne il primato. L’unica soddisfazione che Malipiero, Casella e compagni avrebbero potuto ricavarne è la constatazione che dopo Puccini a nessun compositore sarebbe più stato concesso di arringare il pubblico in altrettanta dimensione memorabile e che i teatri d’opera avrebbero dovuto accontentarsi di ridursi a musei, a luoghi di conservazione di un repertorio del passato, non più rinnovabile.
Gian Francesco Malipiero
Il periodo non è di quelli in cui primeggi una figura guida.
La scena musicale di quegli anni allinea piuttosto una serie di comprimari, ognuno come singola risposta a una singola domanda. Alla base è individuabile l’aspetto peculiare di una nazione in un certo senso a statuto speciale, che all’inizio del secolo non aveva ancora compiuto il suo ‘risorgimento’, una “nazione ritardataria” (“verspätete Nation” come è stata chiamata accomunandola alla Germania), un paese arrivato tardi a realizzare la condizione di stato nazionale, o meglio a porsi tale problema quando le altre nazioni europee non se lo ponevano ormai più direttamente.
Ecco quindi che, nel momento in cui le avanguardie artistiche (assegnando la priorità agli aspetti ontologici del linguaggio) vengono a prescindere da qualsiasi tradizione, la nuova musica italiana si trova ancora a dover dare risposta alla richiesta di mostrare la patente di italianità. L’accennata polemica contro la consuetudine operistica è appunto di questo tipo. Anche se costituzionalmente italiano nell’espressione, il melodramma (di Verdi, ecc.) risultava ormai inserito in un circuito di consumo internazionale in cui veniva a mancare la funzione di messaggero, con l’impegno di far conoscere la ricchezza e la grandezza del patrimonio nazionale. Mentre negli altri paesi europei la modernità era attuata come rottura della continuità con la tradizione, in Italia essa si realizzava paradossalmente con il riallacciamento dei rapporti con la tradizione, in questo caso quella più antica.
Pietro Mascagni
L’elemento comune della “Generazione dell’Ottanta” è la negazione della tradizione ottocentesca, e il riconoscimento dell’esemplarità della tradizione antecedente (barocca, rinascimentale, medievale addirittura). Per quest’ultima via l’Italia non perde il contatto con l’avanguardia europea, che la vide accomunata all’esperienza del cosiddetto neoclassicismo, consolidato dall’asse Casella-Stravinsky.
Nel giudizio occorre tuttavia mantenere la distinzione secondo cui nel modello esaltato era la componente ‘italiana’ a primeggiare, non quella ‘antica’. E tale elemento concorre certamente a tenere in disparte nel contesto continentale la musica italiana che si riconduce a quella matrice.
In ogni caso tale processo, già ben delineato nel primo ventennio, non ha direttamente a che fare con la politica culturale del fascismo la quale, più che una causa (di dirigismo), ne è una conseguenza. In questo senso non sfugge il fatto che che per certi versi il fascismo in Italia abbia significato un fattore di modernizzazione, indicando come ideali della propria mitologia l’aeroplano, l’automobile, ecc., contribuendo a far accettare i valori della civiltà industriale e mostrando disinvoltura ad accaparrarsi i moderni mezzi di comunicazione di massa (radio, cinema, ecc.).
Non per niente il regime mussoliniano poté illudere i futuristi, che in maggior parte vi aderirono, mentre lo stesso fenomeno non si ripeté in Germania dove il nazismo, nella ricerca di una teutonicità esasperatamente pura e nel riscontro dell’ideologia del “Blut und Boden”, non poteva che soggiacere al modello preindustriale, arcaico e contadino addirittura, senza possibilità di conciliarsi con l’arte d’avanguardia intesa come espressione della condizione urbana.
Tuttavia col suo avvento il fascismo in Italia non poteva non favorire la linea di sviluppo che la “Generazione dell’Ottanta” aveva determinato: dal principio dell’affermazione dell’italianità al nazionalismo, per non dire all’autarchia, il passo fu breve.
Su questa base è da leggere la connivenza con il regime che accomuna quasi tutti i musicisti dell’epoca, i quali vi trovarono effettivo sostegno. Ciò non significò la formulazione di un’estetica musicale fascista: è più esatto parlare di coincidenza di esperienze individuali con l’ideologia politica.
Respighi vi approdò con i temi romani dei suoi poemi sinfonici e con l’opera Lucrezia, ma né il trionfalismo dei Pini di Roma né l’uso di pretesi strumenti antichi (le buccine) bastano ad allineare a un’ipotetica arte di regime un compositore impolitico, la cui modernità è il risultato di una ricerca di adattamento di un modello sostanzialmente fermo sull’asse Strauss-Debussy.
Pizzetti trovò nel fascismo la conferma a un’aspirazione elitaria spinta fino all’esaltazione spiritualistica. Casella si presenta come il compositore più aperto alle esperienze europee con un modello (strumentale nel suo caso) compatibile con il neoclassicismo come era venuto a delinearsi sull’asse Stravinsky-Hindemith, ma nel quale non è mai completa la conciliazione tra il particolare dell’individualità italiana e l’universale del suo essere cittadino del mondo.
È comunque importante rilevare che di un modello di musica fascista non è possibile parlare e che la questione di un’arte all’altezza delle circostanze fu più un problema degli stessi musicisti che delle autorità, un interno regolamento di conti come fu la situazione provocata dalla pubblicazione sul “Corriere della sera” nel 1932 di un manifesto che vide schierati Respighi e Pizzetti con un gruppo di figure minori e opportunistiche (Alceo Toni, Giuseppe Mulè e altri) contro l’ala più innovativa rappresentata da Casella e Malipiero a cui veniva rimproverata l’accondiscendenza agli esperimenti inconcludenti, la perdita di continuità con la tradizione, la predilezione per la “musica oggettiva” deprecata in nome del “romanticismo di ieri [che] sarà anche quello di domani”.
Orbene l’intervento personale di Mussolini nella vicenda, astutamente politico, non significò parteggiamento per la corrente palesemente restaurativa ma cercò di conciliare (riuscendovi) gli opposti orientamenti, finendo col fare addirittura gli interessi degli innovatori. In tutta la sua fase di maturazione il fascismo italiano riuscì nell’intento mediatore di ciò che di nuovo si agitava nella musica in Italia, il cui fondamento rimaneva l’assunto neoclassicistico del riferimento agli italici modelli del passato e, in quanto tale, immediatamente assimilabile all’orientamento culturale del regime, nonostante il fatto che nei suoi aspetti più evoluti tale tendenza si collegasse con la corrente più cosmopolitica dell’avanguardia europea d’allora.
Il punto critico dell’opera di Casella è la scelta della monumentalità barocca (Introduzione, Corale e Marcia op. 57, ecc.), in cui si incrina l’equilibrio così abilmente intessuto con le esperienze europee, di cui egli fu il propagandista nei vari festival di Siena, Firenze, Venezia, e a cui da patrocinatore riuscì ad associare il regime. Nel suo ‘neobarocco’ Concerto per orchestra non sfugge la presenza di un Inno, in cui è individuabile un filo rosso che collega l’Inno a Roma di Pizzetti (composto per la colonna sonora del film Scipione l’Africano del 1937) alla sacralità delle Feste romane (1928) di Respighi, gli Inni (1932) di Malipiero espressamente dedicati a Mussolini agli Inni per tre pianoforti (1935) di Dallapiccola. Sennonché, negli ultimi due casi, della forma celebrativa è conservato solo il guscio in un’espressione incapace di respiro retorico, di dare al presente una risposta compatibile con la richiesta di un’arte cerimoniale.
Qui si situa uno spazio che sarebbe sbagliato dire di dissenso, ma piuttosto di fuga dal reale, evidente nella funzione metastorica del richiamo del passato che Malipiero non intende mai neoclassicamente bensì come un “Gegenwelt” (Jürg Stenzl), un mondo inverso opposto al presente.
A questo livello è anche da leggere un’opera quale Volo di notte (1937-1939) di Dallapiccola, che dal punto di vista del contenuto si presenta come una ‘Zeitoper’ (opera d’attualità), sia per la scelta dell’argomento sia per il risvolto fascista dell’esaltazione dell’eroismo aviatorio, mentre da quello musicale appare come la sua negazione. In Dallapiccola è individuabile un processo di astrazione che spiega il suo approdo alla dodecafonia, la quale, benché fondamentale per la messa a fuoco del senso di protesta che avrebbe assunto la sua musica (Canti di prigionia, Il prigioniero) svolge la sua funzione anche come distillazione del linguaggio, liberato da ogni incrostazione temporale.
In questo senso è da comprendere anche l’impostazione di Goffredo Petrassi, che seguì Casella nell’assunzione di ruoli di organizzatore musicale di regime, ma il quale dall’iniziale solennità monumentale del Salmo IX (1934-1936) passò a un processo di epurazione che, mirando alla musica pura scegliendo la dimensione mistica anziché l’impegno terreno (Noche oscura, su testo di San Juan de la Cruz, 1950), non a caso in anni più tardi sarebbe approdato pure alla dodecafonia.
Infine, a dare valore di conclusione all’evidenziazione di un percorso che integra con occhio indulgente esperienze dove debolezze umane e cedimenti non inficiano il valore e la funzione ultratemporale della testimonianza artistica, la necessaria distanza da quegli eventi ci è suggerita dal significato delle campane nella Terza Sinfonia di Malipiero, le campane che aveva sentito risuonare dai campanili della laguna veneta l’8 settembre 1943 annuncianti l’armistizio, ma che nello stesso tempo preludevano a nuove sciagure e che il compositore così spiegava al critico ginevrino Robert-Aloys Moser: “Trovo che le campane purificano l’aria mentre attenuano i rumori della volgarità”.