Musica militante
Tra i compositori che collaborarono con Brecht all’allestimento dei suoi capolavori, al primo prevalentemente, a Kurt Weill, si riconoscono importanti meriti creativi. Personalità quali Paul Dessau e Hanns Eisler, autori tra l’altro delle musiche dei drammi brechtiani più maturi, sono meno noti e con tutti i loro meriti per lo più considerati all’ombra del genio del grande drammaturgo come fedeli esecutori.
L’equivoco è doppio: Weill diede sì vita a uno stile musicale “epico” ma con premesse tanto originali da spingerlo spesso oltre la severa osservanza dei principî “brechtiani”, mentre una personalità quale quella di Eisler rimane ancora in ombra, sia come musicista sia come teorico.
Allievo prediletto di Schönberg, prima ancora dell’incontro con Brecht egli aveva già fatto le sue scelte rinnovando dall’interno la tradizione dei cori operai tedeschi, impostando organicamente un lavoro tendente all’uso cosciente della portata politica della musica.
Dopo aver capito assai presto che la cosiddetta “musica di tendenza” non poteva limitarsi semplicemente ad eccitare i sentimenti dei combattenti operai, prese chiaramente coscienza della necessità di sottrarsi alla funzione consolatoria della musica e al godimento che la classe borghese associava all’idea di bellezza. In questo senso i suoi canti politici (il Solidaritätslied fa testo) rappresentano probabilmente la sua migliore testimonianza.
Assai diffusi negli ambienti operai più battaglieri e politicizzati, essi non si lasciano assimilare al tipo ben noto di musica di circostanza, ma nella loro pungente aggressività, palesano un significato che si spinge oltre lo scontato ruolo ritualistico dell’arte applicata. Essi sfuggono infatti al cliché in favore di un’invenzione sempre vivida e attenta a evitare di cadere nel pericoloso compiacimento di slanci affermativi, grazie al prevalere dell’asimmetria nella continuità ritmica combinata con una sorprendente varietà modulante in un contesto armonico di premesse ovvie e di altri procedimenti che, approdando a un’omogeneità di stile al di fuori di coordinate prevedibili, fanno di queste composizione momenti convincenti anche e soprattutto dal profilo strettamente musicale.
Ma l’attività compositiva di Eisler non si limita a questa esperienza di intervento diretto nella realtà sociale e politica.
Egli fu anche compositore di brani strumentali, di cantate, di musica da camera e da film, per cui differenziato occorre che sia il giudizio, proprio in quanto, riconoscendo come in ambiti diversi le funzioni siano diverse, diversi sono gli stili rispettivi giungendo pure ad includere al limite la dodecafonia.
La constatazione di Brecht secondo cui “la musica non è un’arca sulla quale ci si possa salvare dal diluvio” vale anche per Eisler, per cui pure in tali circostanze, apparentemente lontane dall’assunzione di un immediato compito politico, la sua musica non si lascia assimilare alle varie maniere ‘neoclassiche’ o dodecafoniche da cui sembra prendere le mosse.
Qui tuttavia si situa il punto problematico della sua esperienza che, partendo dal principio secondo cui una musica alternativa al perdurare della tradizione borghese per mezzo dell’esercizio vigile dell’“arte da ereditare” può e deve appropriarsi di quegli esiti ‘progressisti’ che la musica borghese nelle sue tendenza più avanzate ha concepito, rimane di ambigua lettura.
La Römische Kantate, ad esempio, pur rispettando una corretta impostazione dodecafonica, introduce semplificazioni melodiche e ritmiche capaci di renderla accessibile anche al pubblico più diffidente ed estraneo alla problematica individualistica che il fatto di rifarsi al modello schönberghiano sottende.
Attraverso tale atteggiamento e la ricerca costante di una verifica della prassi proposta presso il pubblico operaio, che nel fecondo ed eccitante periodo prenazista divenne spesso un effettivo motore creativo, si intravvede tuttavia una dinamica in parte contraddittoria, dovuta al fatto che la partecipazione ipotetica della base proletaria si manifesta nella forma passiva di un controllo a posteriori come consenso o dissenso verso un prodotto artistico calato dall’alto.
Nonostante la disposizione di Eisler all’autocritica permanente, la sua musica non può infatti sfuggire all’accusa di paternalismo. Nel periodo in cui il partito comunista giunto al potere nella DDR si trovò nella necessità di definire i compiti dell’educazione musicale scolastica, l’opinione di Eisler secondo la quale nella misura in cui il proletariato potrà essere informato e educato sarà possibile guidarlo alla comprensione di strutture più complesse e dense di significati, conferma l’irreversibilità di tale atteggiamento.
Lo denota la rielaborazione in forma di cantata delle canzoni e dei cori per La madre di Brecht (1932) che, pur preservando l’efficacia proclamatoria delle parti corali, con la densa scrittura contrappuntistica imposta ai due pianoforti tende al recupero di modelli irrimediabilmente ‘dotti’. La portata irrinunciabile di tale recupero rivela un conflitto, insanabile ad onta di ogni possibile teorizzazione, nell’aspirazione a dotare la classe operaia di una propria cultura musicale autonoma.
L’esperienza di Eisler testimonia la paralizzante condizione dell’intellettuale moderno la cui presa di coscienza è maturata nell’ambito della crisi dei valori borghesi, per cui il balzo verso nuove prospettive non può essere compiuto al di fuori della lacerazione che comporta il distacco dalla tradizione.