MUSICA: SIMBOLO E MITO
La musica è fra le espressioni artistiche quella che più di ogni altra si dimostra in grado di affermare la sua autonomia di senso. Nel momento stesso in cui viene assegnata a compiti sociali, in cui viene a svolgere funzioni persino prosaiche, essa rivela la sua capacità di sfuggire all’abbraccio del reale per conservare un coefficiente di imponderabilità che ne fa una manifestazione conturbante e temibile.
Che sia adattata a una cerimonia religiosa, a una parata militare, a una festa di ballo o a un intrattenimento, essa assolve sempre il suo compito spingendosi al di là di quanto richiesto.
Nella cerimonia religiosa non si limita a condecorarla di suoni col semplice scopo di renderla magnificente, ma può diventare strumento di elevazione spirituale ben più efficace della stessa parola liturgica.
Nella parata militare, alla disciplinata scansione del passo sa sempre aggiungere l’incitamento a uscire dalla propria individualità per far partecipare l’insieme degli astanti a un destino collettivo.
Nella festa o nell’intrattenimento oltre all’inondare le platee di suoni graditi, essa costituisce il maggiore fattore di regolazione del loro svolgimento come rito comunitario, momento associativo in cui l’individuo consegna il proprio privato sentire al vibrante entusiasmo di un vasto consorzio di anime alla ricerca del punto di sintesi dell’universo.
Ciò avviene indipendentemente dai livelli di cultura in cui l’espressione musicale si colloca e prescindendo dalle epoche storiche. Errato sarebbe infatti pensare che l’energia universalizzante che ne promana, così efficace nel procurare l’aura adatta alla rappresentazione dei poteri assoluti (religiosi o temporali che siano), convenga più al passato remoto con le sue integralistiche visioni e meno al presente laico dominato dalla tecnica, che con le sue conquiste induce a pensare al trapasso definitivo dall’autorità di Dio all’uomo.
Viceversa la musica si oppone al potere riduttivo della tecnica, alla progressiva eliminazione di spazi residui di irrazionalità, prospettando sempre una dimensione in grado di andare oltre le certezze del suono plastico, corporeo, solidificato, illusoriamente ricavato nello spazio fisico dai procedimenti dell’“alta fedeltà”.
Giuseppe Verdi, La Traviata: Libiam nei lieti calici
Già Theodor W. Adorno, più di mezzo secolo fa, trovatosi a disagio nel motivare il difficile rapporto tra suono e immagine nella musica da film, notava come “l’udire, se paragonato con il vedere, è arcaico, non in linea con la tecnica”, identificando nella musica un fattore di trasmissione di memoria atavica. Nel contempo, proprio il maggiore propugnatore della radicale scelta modernistica (razionalizzatrice) della musica del nostro secolo, veniva a rendersi conto della sua resistenza ai procedimenti di regolamentazione predeterminata (la dodecafonia) in virtù della capacità dell’orecchio di aggrapparsi alla sua essenza arcaica.
Il riscontro più clamoroso è davanti a noi nell’attualità, nelle adunate dei concerti rock dove l’elettrificazione del suono resa possibile dal progresso tecnologico, potenzialmente in grado di ridurre al minimo l’individuale componente creativa, produce il suo contrario. Nell’esaltazione divistica, nel rapporto demiurgico instaurato dai protagonisti delle esibizioni di massa, nell’estensione del volume sonoro a termini capaci di coinvolgere moltitudini mai prima d’ora raggiunte, risorge prepotentemente la forza della ritualità, il bisogno degli individui di aggregarsi a configurare uno stato di sospensione del radicamento nel reale che concede l’elevazione a una condizione di affratellamento degli animi, di trasporto collettivo verso orizzonti fuori del tempo e dello spazio, arcaici appunto nella misura in cui la riproduzione di un contesto tribale riporta il comportamento ai meccanismi istintivi dello stato di natura.
Non ritengo un caso che l’aggettivo “mitico”, entrato nel lessico banalizzato dei giovani, si sia diffuso a macchia d’olio proprio per definire il rapporto con l’emblematicità dei loro idoli in carne e ossa. Nell’inconsapevolezza della sua valenza al di là del tempo vissuto, il termine segna la rivincita di un valore primigenio e ne consacra l’assolutezza proprio là dove la dominante invadenza della tecnica, impegnata semmai a rifondare i rapporti in funzione di modi d’essere rivolti all’avvenire, pretenderebbe di cancellarlo. Dietro il fenomeno, in controluce, si staglia l’azione mitica della lira di Orfeo, dell’arpa di Davide, dei poteri riconosciuti all’arte dei suoni nella classicità, riscoperta dalla musica dei secoli più vicini a noi attraverso la poesia che, ripercorrendo in proiezione ideale e in raffinata operazione esponenziale le simboliche vicende dell’Arcadia e dell’Olimpo, ne è stata in un certo senso la coscienza, la coscienza di una virtualità, di una forza misteriosa celata tra i righi del pentagramma pronta a rivelarsi non appena il peso della cultura tende a inaridirla, come insegna l’ideale pagano risorgente nell’orizzonte simbolistico di Debussy, a venarlo di umano calore nel momento stesso in cui il suo arabesco assurge a essenza astratta.
È il momento in cui, come in uno specchio, la musica si riflette nella poesia, intrecciando un rapporto di necessità che va al di là della parola cantata, proprio individuando in quell’esperienza la complementarità di due livelli d’espressione. Nella poesia che si fa musica attraverso il suono della lingua e nella musica che si popola di fantasmi poetici, di figure e memorie di personaggi assurti a simbolo di un modo d’essere liberato dalle pastoie di vicende terrene, pulsa uno stadio di vita a cui non sono imposti confini temporali, un valore esistenziale sospeso in un immaginario a cui il musicista ritorna periodicamente ad abbeverarsi, a ritrovare la linfa rigenerante del simbolo quando i casi tendono a imprigionarne l’esperienza nelle strette maglie dell’ovvietà.