• Diario d'ascolto
  • 20 Aprile 2019

    NINO ROTA, UNA VITA TRA I SUONI

      Carlo Piccardi

    Ci può essere gloria per un compositore di musica da film? Intendo la gloria vera, non quella commerciale legata a motivi indovinati destinati a fare il giro del mondo sulle correnti della moda e poi ad essere dimenticati con l’estinguersi della sua funzione trainante. Il discorso è complesso e richiederebbe una risposta articolata, anche se il sospetto che la musica cinematografica rimanga un accessorio incapace di significato autonomo si impone con prepotenza.

     

    È un dato di fatto, comunque, che nella maggior parte dei casi le trattazioni sulla musica moderna non considerano la musica da film, pur dedicando magari ampi spazi alle forme più diffuse della musica di consumo (il musical, il jazz, il rock, ecc.).

    dolce vita

    Il fatto è che Nino Rota non fu solo autore di musica da film ma, fin dagli anni venti quando rivelò le doti di un bambino prodigio, compositore tout court confrontato ai livelli più impegnativi con la musica dell’epoca e parimenti sensibile alla spontaneità comunicativa della musica leggera.

    ROTA E FELLINI

    Fedele D'Amico ha collegato la cosiddetta «inattualità» di Nino Rota (in pratica l’accusa di non allineamento con le parole d’ordine delle avanguardie) proprio con il concetto di inattualità che percorre tutta la musica moderna: «Il compositore “moderno” è inattuale nel senso che fra la sua musica e quella che la società del suo tempo sente come musica naturalis (...) non corre necessariamente un rapporto. (...) Ora la sua brava inattualità, Nino Rota la raggiunge anche lui: ma per via opposta (...) La gente crede di scandalizzarsi perché trova nella sua musica relazioni tonali sempre esplicite, simmetrie melodiche fondate sulle canoniche otto battute, ecc.; ma si sbaglia: lo scandalo è che cose del genere siano ammesse nella sua partitura come naturali, invece di essere messe tra virgolette. Altrimenti detto, l’atteggiamento di Rota di fronte a quella che sbrigativamente abbiamo chiamato la musica naturalis è identico a quello del composìtore precedente il Diluvio: salvo che oggi quella musica è una pura ipotesi, non esistendo più nella società quel minimo di concordia necessario ad attestarla».

     LA STRADA

    Rota è quindi stato un autore che ha operato ai margini, non quelli dell’avanguardia, bensì proprio quelli del versante opposto, che lo portarono alla convinzione secondo cui la definizione di musica leggera, semileggera, seria sarebbe fittizia: «Gli spartiti di Offenbach saranno leggeri fin che si vuole, ma di una leggerezza che dura nel tempo; mentre c’è molta musica della stessa epoca che, rispettabilissima, erudita e serissima, ci rompe le scatole e basta! Il termine ‘musica leggera’ si riferisce solo alla leggerezza di chi l’ascolta, non di chi l’ha scritta».

     OTTO E MEZZO

    Questa sua riflessione è forse la chiave di tutta l’opera di Rota, che in primo luogo chiarisce la fisionomia complessa delle sue opere sinfoniche (sempre comunque fecondate da un’ispirazione sbarazzina capace di far volteggiare quella tipica tematica circense che egli ebbe nel sangue indipendentemente dall’incontro con Federico Fellini), che spiega la scelta drammaturgica del suo teatro musicale che si pone in rapporto di diretta ed «anacronistica» filiazione (Il cappello di paglia di Firenze in primo luogo) con l’operetta, e che contiene la motivazione della spregiudicatezza della sua musica da film (di tutte le colonne sonore composte per De Filippo, Fellini, Zeffirelli, Visconti, Coppola, ecc.) in un delicato equilibrio tra identità e spersonalizzazione.

    ROMEO E GIULIETTA

    La facilità dei suoi esiti non è perciò un punto di partenza, bensì un punto d’arrivo e ciò sarà sempre sufficiente a tracciare una distinzione fondamentale tra i prodotti musicali di consumo e le sue creazioni. La banalità apparente delle sue espressioni è infatti da mettere in relazione con questa sua fondamentale dichiarazione estetica: «La problematica delle cose emerge quando il problema non è risolto. Forse questa sarà una mia presunzione: nelle opere d’arte che valgono, i problemi non si notano. Se esistono per il pubblico, bisogna dire che il problema non è risolto. Lo deve affrontare l’autore, ma non è giusto che lo debba subire il pubblico».

     IL PADRINO

    Di qui la grande riuscita delle sue celebri colonne sonore, soprattutto quelle felliniane dove, come è stato detto, la musica entra fisicamente nella narrazione giungendo spesso a determinarla e dove non è mai percepibile la traccia del procedimento, dell’adeguamento al grado servile di commento che generalmente livella la qualità della musica cinematografica.

     ROTA DISCO DORO

    «Entrava nelle atmosfere, nei personaggi, nei colori dei miei film – così si è espresso Federico Fellini – così pienamente da permearli della sua musica (...) Aveva un’immaginazione geometrica, una immaginazione musicale da volta celeste, per cui non aveva bisogno di vedere le immagini dei miei film. Quando gli chiedevo quali motivi aveva in mente per commentare questa o quella sequenza, avvertivo chiaramente che le immagini non lo riguardavano: il suo era un mondo interno, in cui la realtà aveva scarsa possibilità d’accesso (...) Ed era sempre una sorpresa che Nino, dopo aver messo nel film tanto sentimento, tanta emozione, tanta luce, si girasse verso di me per chiedermi, alludendo al protagonista: “Ma quello chi è?”. “È il protagonista”, gli rispondevo. “E che fa?”, mi chiedeva, aggiungendo: “Tu non mi dici mai niente!”. La nostra era un’amicizia vissuta sui suoni».

     REX COLORI