Opera per marionette
Le prime testimonianze storiche di opere teatrali concepite per marionette risagono al trattato Della Cristiana Moderatione Del Theatro di Gian Domenico Ottonelli (Firenze 1652),
in cui si parla di taluni «Comedianti, i quali per dimostranza dell’eccellente loro ingegno hanno inventato un altro nuovo modo di far Rappresentazioni theatrali con maravigliose macchine e poi sopra il palco formano alcuni legni cavati in forma di canali, e che servono come strade, dentro cui appariscono le figure, alte un mezzo braccio, fatte di cartone, rappresentanti varie forme, e si muovono dal principio del canale verso il mezzo del palco (...) Questi Comici rappresentano Opere sacre e cantate: e di loro alcuni stanno nascosti sotto il palco, o in altro luogo occulto, e opportuno, per muovere i contrapesi conforme al bisogno; altri, che recitano, secondo la comparsa delle figure, cantando, o sonando, si pongono di fianco avanti al palco, e con una tela, o velo, ricoperti dall’Auditorio (...)».
Intorno agli anni Ottanta del XVII secolo l’esperimento dei burattini riguarda anche Venezia dove il cavalier Filippo Acciajoli, teatrante di larga fama e autore del primo «Don Giovanni» in musica, venne da Roma per istallare in un teatrino certe sue «figure di legno al naturale di straordinario artifizioso lavoro» sostenute «dalle voci de’ Musici di dentro». Il fascino di questo nuovo genere di rappresentazione creò immediatamente una gara tra le varie città ad accaparrarsi gli specialisti.
II gran duca di Toscana pure volle a Firenze l’Acciajoli: «ha fatto venire da Roma periti artefici, quali gli hanno lavorato una buona compagnia di recitanti di quelli che parlano per l’altrui bocca, si muovono al moto d’un filo di ferro sottilissimo, et essendo statuette insensate, sono nelle scene mirabili ne’ loro gesti. Il volgo gli chiama burattini. Nella villa di Pratolino si farà la comedia dei Signori Burattini, che promettono un giocondo spettacolo a gli uditori (...) Cotesti comici piacciono ancora a me, perché si spende poco nel preparargli le scene, meno nel vestirli, e nulla nel fargli le spese. Per loro alloggio basta uno scatolone».
La tradizione continua per tutto il XVIII secolo: la traccia più vistosa e a noi più vicina, che permette di risalire a un contesto assai vitale di pratica culturale, è costituita dal teatrino dei prìncipi Borromeo ancora oggi esposto nella residenza dell’Isola Bella dove è conservato pure un archivio di opere musicali commissionate dalla nobile famiglia a piccoli e grandi compositori.
La concezione del teatro di marionette rimane comunque legata all’estetica secentesca, all’interesse per la funzione del «personaggio» (anziché per la sua identità) da una parte, e dall’altra per la possibilità di realizzare con mezzi relativamente poco dispendiosi lo sfarzo scenografico indotto dal gusto barocco e l’illusionismo di un teatro del meraviglioso attraverso macchine, movimenti, apparizioni e sparizioni artificiose di figure e personaggi.
In questa stessa dimensione si colloca Filemone e Bauci di Haydn, rappresentato in occasione della visita dell’imperatrice Maria Teresa alla residenza di Esterhaza nel 1773, che meravigliò per la ricchezza della messa in scena e per la rapida mutevolezza degli scenari, uno dei quali rappresentava «une vue des jardins et du parc d’Esterhaz dans le point de vue le plus riche, le plus naturel» (così riferiva la Relation des Fêtes donnée à Sa Majesté, ecc.).
Il compiacimento della finzione – che oltretutto sottolineava una società che si specchiava in se stessa e posta al riparo dal resto del mondo – predominava nel teatrino ricavato in una grotta di pietra viva, rivestita di conchiglie, innaffiata da getti d’acqua e da fasci luminosi riflessi magicamente da polvere brillante, capace di circoscrivere ciò che vi veniva rappresentato in una dimensione al di fuori del tempo.
Così trovano motivazione le sopravvivenze pastorali di tale Singspiel, in una musica articolata in numeri perfettamente chiusi, impegnata a riprodurre la sostanza dei sentimenti in visione statica dove predomina l’esemplarità morale in una vicenda ricavata dalle Metamorfosi di Ovidio, che, inneggiando alla generosità degli dèi scesi dall’Olimpo alla ricerca di un’anima buona in un mondo corrotto, celebra nel contempo il principio di giustizia e di magnanimità del monarca per diritto divino.
Nella primitiva versione perduta dell’opera, di cui rimane soltanto il testo, il finale prevedeva una moltitudine di marionette in costume nazionale ungherese chiamate ad animare una scena glorificante la casa degli Absburgo, le cui insegne ornavano il tempio pagano in disinvolta ma perfetta coniugazione di simboli. Eppure il significato dell’opera non è tutto qui.
La visita di Maria Teresa a Esterhaza durò più di un giorno, vivendo il momento culminante la sera precedente con la rappresentazione di una nuova opera italiana espressamente composta per l’occasione da Haydn, L’infedeltà delusa.
Di fronte a quel sontuoso spettacolo in cui erano impegnati i migliori artisti italiani scritturati dal principe, l’operina per marionette costituiva un omaggio all’imperatrice di tipo opposto. Filemone e Bauci era infatti cantata e recitata in tedesco, la lingua del popolo, ed interpretata dalla servitù (il coro in particolare era formato dalle guardarobiere, dai figli dei granatieri, e da altro personale addetto): attraverso l’impianto cerimoniale, formalizzato era quindi destinato a farsi largo un concetto espressivo estraneo all’aulicità dell’assunto, perfettamente interpretato da una musica agile nella semplicità di dizione, capace di tendere il filo nascosto che condurrà ai magistrali Singspiele di Mozart, in cui definitivamente nella sostanza popolare veniva colto il fondamento della moderna opera tedesca.