PAGANINI NON SI RIPETE
Se ci affidiamo ai dati statistici che ci rivelano come oggi siano ormai decine i violinisti al mondo in grado di affrontare con sufficiente padronanza i proibitivi Capricci paganiniani a cui durante l’Ottocento pochi osavano avvicinarsi, dovremmo dedurne che la lezione del genovese sia ormai stata da tempo assimilata e privata di quel carattere di eccezionalità che ne motivò l’ascesa.
Certamente al nostro orecchio, rotto alle innumerevoli esperienze violinistiche successive, il grado di meraviglia prodotto dalle vorticose scalate ai sopracuti perdute nell’ineffabile cascata di suoni armonici non può essere ormai più pari a quello che suscitava il delirio delle folle coeve, per le quali Paganini col suo stile sembrava parlare una nuova lingua, esoterica e perfino magica. Il balzo rispetto alla norma era tale per cui agli interrogativi che la nuova maniera esecutiva poneva non corrispondevano ancora risposte plausibili.
Che la leggenda potesse avere in qualche modo una spiegazione se ne rendeva ben conto Paganini stesso, se, in occasione dei suoi concerti con orchestra, si prendeva ossessiva ed esagerata cura delle parti orchestrali distribuite solo all’ultimo momento e ritirate subito dopo l’esecuzione per timore che qualcuno potesse carpirgli qualche segreto. D’altronde le partiture manoscritte dei suoi concerti, mai dati alle stampe mentre fu in vita, non hanno mai recato la parte del solista che egli sempre custodì per sé con gelosia maniacale.
Jean Auguste Dominique Ingres, Ritratto di Niccolò Paganini, 1819
Con tutto quanto di ridimensionante vi può essere in tali costatazioni, non è però possibile misconoscere il significato di una scrittura violinistica che ancor oggi tradisce la portentosa affermazione di un genio che fu capace di esplorare il fantastico mondo celato dallo strumento ad arco fin nei meandri più remoti. La sollecitazione che ci viene da quella musica è ancora realtà fresca e viva, in grado di irretire il più smaliziato ascoltatore. Oltre le condizioni culturali dell’epoca, per capire pienamente il fenomeno dobbiamo tuttavia renderci conto che col tempo è andato perso un fattore che la più affilata perizia tecnica da sola non sarà mai in grado di restituire, cioè l’atteggiamento stesso che ha intuito tali idee musicali. Un conto infatti è riprodurre l’apparenza di una scrittura e un conto è averla creata e soprattutto ogni volta superata in un atto esecutivo concepito come gesti di sfida a ogni prevedibile aspettativa.
Ciò che i moderni virtuosi al massimo riescono a conseguire nel contesto paganiniano è l’esattezza della lettura, mentre irriproducibile risulta ormai la foga improvvisatoria con cui il genovese sapeva aggredire la sua stessa scrittura, la quale non era già il fine bensì il punto di partenza per operazioni di volta in volta mutanti che trasformavano ogni occasione in una ri-creazione. È questa la chiave per comprendere la struttura dei suoi concerti, unici nel loro genere per la predominanza assegnata al solista. Forse solo Chopin si trovò inconsapevolmente a imitare Paganini nella struttura di monologo assegnata ai propri concerti per pianoforte e orchestra. Come nel caso di Chopin tuttavia il ruolo emarginato della compagine strumentale non è fattore di squilibrio bensì di esaltazione di un individualismo esacerbato, capace di mettere in crisi ogni tipo di norma.
Da una parte è possibile, come in ogni fenomeno di questo mondo, rintracciare cause e linee di discendenza precise. La bizzarrìa spesso associata al linguaggio paganiniano costituì infatti un preciso carattere musicale che, nella disposizione deterministica degli stati umorali di concezione più antica, aveva già dato luogo perlomeno ai vivaldiani concerti de La Stravaganza, mentre l’idea del capriccio risale certamente agli sghembi profili dei Capricci enigmatici di Locatelli. Il fenomeno Paganini non sarebbe però stato tale se, anche di fronte a tali precedenti, non avesse in un certo senso sconvolto i meccanismi tradizionali mantenendo della forma soltanto l’involucro e ripensando radicalmente le funzioni compositive, in cui il dato tecnico da ornamento venne a costituire potere formante irradiante forza e capacità magnetiche in grado di reggere anche brani di ampia lena come si dimostrano i concerti.
Le convenzionali categorie di indagine possono fuorviare se applicate a una musica refrattaria alle formalizzazioni del pensiero musicale scritto. Essa va invece affrontata tenendo sempre presente la resa sonora esaltante un gesto individuale, iperbolico, di natura in fondo molto simile alle iridescenti operazioni concepite da Rossini nell’àmbito del canto operistico, termine ultimo di una gloriosa tradizione italiana che nel contempo (e inconsapevolmente) diventava termine primo dell’espressione romantica che, da un virtuosismo dai tratti eroici, derivava la capacità d’affermazione di individuale fierezza (fondamento che, se non è sufficiente a motivare la rivendicazione di Paganini al movimento romantico, lo coinvolge tuttavia a dimostrare la complessità dei rapporti nella maturazione delle esperienze culturali).