• Diario d'ascolto
  • 1 Ottobre 2015

    Puccini: la messa degli albori

      Carlo Piccardi

    Comunemente si usa far coincidere gli esordi artistici pucciniani con il suo inserimento nella vita operistica milanese che lo accolse fin da principio come una promessa. 

    In realtà Puccini non giunse immaturo nella capitale lombarda, anche se fu a Milano e non nella sua città natale che trovò gli stimoli necessari a sviluppare la sua arte compiendo un radicale passo in avanti rispetto al modello operistico fissato da Verdi, che costituiva la salda eredità di un mondo lasciato alle spalle insieme a tutte le sue idealità e affermazioni morali. La sua formazione, avvenuta a Lucca all’ombra della sana e solida tradizione musicale fortemente marcata dalla lunga dinastia dei compositori che formarono la sua famiglia, non è quindi da considerare un semplice apprendistato. Organista in varie chiese e compositore di alcuni brani religiosi presentati in occasione di festività locali, conclusi gli studi all’istituto musicale Pacini, egli si trovò erede di una tradizione viva che, prima ancora che approdasse al teatro, l’aveva forgiato sulla misura di una cultura musicale che a Lucca aveva messo profonde radici nella forma di attività saldamente legate alle consuetudini sociali e religiose. Un Mottetto e un Credo composti da Puccini nel 1878 furono eseguiti nella chiesa di San Paolino, e fu il Credo che nel 1880 venne incorporato nella Messa a quattro voci con orchestra, la quale, per maestria compositiva ed originalità d’espressione, costituisce qualcosa di più di un saggio accademico.

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    Sulla scia di un giudizio dato dal musicista stesso su questo suo lavoro giovanile, considerato nulla più di un peccato di gioventù, e per la sua inadeguatezza al modello liturgico come comunemente l’intendiamo, la messa venne sbrigativamente e troppo presto emarginata dalla critica. Ora, il fatto che il compositore la ritenesse degna di poco conto non si giustifica solo in considerazione del presunto suo carattere occasionale, ma va spiegato soprattutto nella situazione di estraneità in cui l’operista ormai affermato si trovò nei confronti della sua esperienza lucchese in cui a distanza di spazio e di tempo non gli era più possibile identificarsi.

    La messa di Puccini appare infatti come il prodotto estremo di una civiltà musicale italiana «minore», spontaneamente radicata e vissuta nelle città di provincia, dove l’antica tradizione, in completa assimilazione con la tanto spontaneamente ingenua quanto esaltante espressione melodrammatica sorta nell’Ottocento, aveva dato vita a soluzioni di forma, di stile e di espressione tanto profondamente diffusi da non mai mancare di produrre esiti di vitalità incomparabile. Il perentorio e trascinante attacco del “Qui tollis peccata mundi” nel Gloria, nel suo inequivocabile sapore verdiano di vocalità spiegata, che risale alla provocazione risorgimentale delle opere a sfondo corale, evidenzia in maniera inconfondibile le premesse «epiche» di un modo di intendere la musica divenuto non casualmente popolare.

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    Accontentarsi di riconoscere in questa messa la teatralità dei gesti, senza captare il significato sociale da essi assunto nella storia risorgimentale italiana (che aveva mobilitato l’espressione musicale ai fini dell’affermazione di sofferti ideali di libertà e di emancipazione), significa analizzare solo in superficie una realtà più complessa della sua apparenza. Non può infatti non colpire l’attenzione il fatto che quest’opera giovanile pucciniana sia una composizione ad impianto quasi esclusivamente corale, per cui, se accettiamo di riconoscervi una fisionomia teatrale, essa va ricondotta alle formulazioni di un teatro operistico ancora immune dall’interesse prevalente per leo individualistiche penetrazioni psicologiche quale fu quello del primo Verdi nella sua dimensione epica nei suoi entusiasmanti fisvolti civili. Di fronte al rispecchiamento in questa messa di tale potenziale, attraverso la massiccia presenza corale, suona alquanto inopportuno il giudizio sulla sua insufficiente agibilità liturgica, quando la salda, per quanto ingenua, idealità morale che infiamma il fervore espressivo è capace di dare vita a una liturgia civile possibile ancora in una società come quella italiana di quegli anni, in cui rimanevano predominanti fra il popolo le ragioni dell’appello all’unità.

    Tale esperienza stava toccando però il momento del declino, e ciò appare nelle parti più originali della composizione: quelle corali, meno marcate da accenti pugnaci e più sciolte in linee melodiche sinuose a filo di voce (Kyrie); e soprattutto le parti solistiche sostenute dal tenore e dal baritono, dove l’andamento arioso è attraversato da un fremito lirico nel quale prende il sopravvento l’emozione colorata da una morbidezza di nuovo tipo.
    Emozione dalla quale sorge un’espressione che si affida al sentimento in modo disarmante, al di là di ogni riferimento morale, percorsa da trasalimenti che preannunciano l’antieroica umanità del maturo teatro pucciniano, pur essendo invocati da una trepidazione ancora verginale, non ancora resa problematica dallo scontro di sentimenti che nei suoi capolavori operistici porta inevitabilmente al sacrificio accettato per incapacità di guardare verso l’assoluto. La dimessa veste dell’Agnus Dei che conclude quasi programmaticamente la composizione con il riaffiorare di intime effusioni vocali, dopo la riuscita affermazione trionfalistica del Gloria e del Credo, non è altro che il risvolto di un’esperienza che già intuisce la sopraggiungente impraticabilità dell’atteggiamento epico, operando la scelta opposta che si fa avanti inavvertitamente senza soluzione di continuità. Qui il coro, spogliato degli abiti sgargianti della festività, coperto appena da un velo di pudore, intona impotente il “Miserere nobis”, il quale si stende evanescente sul canto dei due solisti che nella commozione innocentemente liberata raccoglie il filo segreto di tutta la composizione. 

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