• Diario d'ascolto
  • 18 Luglio 2015

    Rapsodia in blu: fantasia metropolitana

      Carlo Piccardi

    Il 12 febbraio del 1924, all’Aeolian Hall di Nuova York, Paul Whiteman e la sua orchestra presentavano la Rapsodia in blu di George Gershwin, annunciandola ambiziosamente come «un esperimento nella musica moderna».

    L’iniziativa del direttore d’orchestra, determinata poco più che casualmente e con velleità sensazionalistiche, nell’enorme risonanza di cui godette aveva trasformato un fortunato autore di canzoni in un compositore a cui l’America guardò con la speranza di vedere finalmente consacrata una dignità artistica nazionale, emancipata dalle forme di subordinazione alle tradizioni europee. Se ad esultare questa volta fu più il pubblico che non la critica, il sentimento che un salto di qualità era stato compiuto appariva nel giudizio audace dato da quel giornalista che volle ritenere l’affermazione della Rapsodia in blu un evento più importante del Sacre du printemps di Strawinsky.

    Il primo ad avvertire che qualcosa di importante si stava muovendo era stato lo stesso Gershwin, il quale disse della sua composizione: «La udii come una specie di fantasia iridescente, come una visione di caleidoscopio musicale, che scaturisce dal nostro paese, da quel crogiolo di razze e di costumi, da quella incomparabile follia metropolitana che è la sintesi dell’America». Era la modernità portata avanti come promessa da un’America uscita egemone dalla grande guerra, cosciente della possibilità di affermare un suo ruolo guida nella svolta tecnologica impressa alla civiltà occidentale. Il cercatore d’oro è ormai diventato l’industriale, il brillante uomo d’affari; il professore d’università Wilson ha preso il posto dell’ultimo dei presidenti cow-boys. Alla ricerca di una qualificazione anche Gershwin chiederà a Ravel e a Stravinsky di nobilitargli il mestiere, ricevendone storiche e sagge risposte.

    In realtà il fenomeno Gershwin rimane significativo per quanto di meno raffinato e di meno problematico la sua musica esprime, apparendo essa più autentica nella misura in cui allo sforzo di elevazione si accompagna la disinvoltura di colui che approda alle grandi forme senza interesse alcuno per la sintesi. I motivi più celebri della sua composizione potranno circolare sotto le spoglie di una canzone senza con ciò apparire degradati, mentre una delle sue più geniali melodie, I Got Rhythm, farà da spunto a una composizione sinfonica senza nulla perdere della sua originale freschezza. In ciò si rispecchiano i modelli di una cultura emancipata non nel senso di essere pervenuta allo stadio in cui al musicista è concesso di forgiare individualisticamente un messaggio proclamatorio, bensì nella capacità di raccogliere in sé forze vitali disparate liberate alla massima temperatura della loro euforia.

    Più precario che mai risulta allora la trovata del termine “jazz sinfonico” applicato indiscriminatamente alle più ambiziose composizioni di Gershwin. E questo non tanto in considerazione del grado di inautenticità che vi detiene la presunta presenza del jazz, ma per il fatto che a quel tempo l’assimilazione del jazz aveva determinato il sorgere di una letteratura musicale più o meno leggera che nella sua fisionomia composita si era legittimata come espressione fedele del carattere caleidoscopico della cultura americana, in cui sarebbe impossibile oltreché inopportuno leggere gli stessi livelli di dignità che siamo usi applicare ai prodotti europei. Non è privo di significato il fatto che, più che gli spunti riconducibili al jazz, nella musica di Gershwin siano evidenti innumerevoli stilemi discendenti dalle abitudini tardoromantiche e impressionistiche, per non parlare del folclore dell’America bianca.

    Ciò che però in un qualsiasi compositore europeo tale coacervo avrebbe prodotto come irrimediabile effetto di Kitsch, nel musicista americano, valorizzando le capacità rappresentative di una condizione capace di trovare la propria identità nel molteplice, suona in tutt’altro modo. Un’analisi anche sommaria della partitura non stenterebbe a rilevare l’accozzaglia di idee originali accanto a luoghi comuni, la giustapposizione di situazioni irriducibilmente contrastanti. Il fatto che il concetto compositivo non miri in alcun modo alla sintesi dà tuttavia ragione a una coesistenza di materiali altrimenti problematica.

    Come principio non siamo molto lontani dagli esperimenti combinatori che già prima di Gershwin conduceva un altro americano, Charles Ives. Sennonché in Ives il concetto stesso di esperimento, cercando giustificazione in un’ideale componente teorica, immancabilmente era chiamato a confrontarsi con la propria inadeguatezza. La musica di Gershwin, ponendosi invece al di fuori di qualsiasi coordinata europea, più che rivaleggiare con i concetti compositivi più accreditati, sviluppava lo stesso principio delle forme musicali del consumo di massa che, prima ancora di trovarsi discriminato nel confronto con la più nobile tradizione, aveva messo a fuoco un rapporto espressivo a suo modo adeguato con la realtà. In questo senso come figure altrettanto interessanti spiccano Irving Berlin, Cole Porter e gli altri importanti esponenti della “musica leggera” americana, nella misura in cui essi hanno operato non già come i loro concorrenti europei, sempre postisi all’ombra delle pratiche musicali più colte (l’operetta ad esempio intesa come sorella minore dell’opera), bensì rapportando il loro discorso al modello elementare di quella canzone che in America era risultata dalla confluenza di modi stilistici in un’espressione individuata nell’area dei rapporti urbani, come manifestazione della città moderna, della metropoli, non più dipendente né dal rapporto con la civiltà contadina né dall’aristocratica egemonia delle classi privilegiate.

    Su questo tronco, fragilmente esposto ai rischi di corruzione a cui negli anni successivi sarà sottoposto dal business sottoforma di «legge del successo», si ramificò alta e frondosa l’esperienza di Gershwin, rimasta unica per le contraddizioni inespunte sulle quali riuscì a mantenere una coerenza, destinata a venir meno presso gli incauti imitatori di stagioni meno felici.