RIASCOLTANDO LA NONA
Quando si pone mente a Beethoven compositore di sinfonie non si valuta mai abbastanza il fatto che le prime otto furono scritte nell’arco di dodici anni (tra il 1800 e il 1812), mentre l’ultima da sola, oltre ai due effettivi di stesura compositiva (1822-24), copre altri quattro anni e mezzo di attiva gestazione.
Già nei precedenti lavori sinfonici il musicista si era trovato nella condizione di dedicare alla loro composizione un tempo notevolmente maggiore rispetto a quanto poteva succedere ancora a Haydn e a Mozart. Ciò non gli aveva tuttavia impedito di dare alla luce nello spazio di soli quattro anni (1804-08) il corpus centrale della sua produzione: la Quarta, la Quinta e la Sesta.
È con la Missa solemnis che Beethoven è costretto a un accanimento fisico di almeno quattro anni, circostanza che contribuirà a moltiplicargli gli aspetti di insofferenza esteriore. Con la successiva Nona la circostanza si ripeterà e con essa il grado problematico di un esito stilistico in gran parte enigmatico e sofferto.
Se accentuiamo il paragone con le tre sinfonie della prima maturità, la relativa speditezza con cui fu raggiunta la loro composizione risulta comprensibile dal fatto che ognuna di esse si era chiaramente riservata l’approfondimento di un versante della sua prospettiva creativa.
Le cose sarebbero mutate in seguito, già con la Settima che si dispiegava in una dimensione più lata. Persino l’Ottava, breve e a prima vista assimilabile a una specie di parentesi creativa, dal suo punto d’osservazione disincantato tradiva l’irreversibilità di un processo che obbligava il compositore a un approccio sempre più globale, e quindi complesso, alla problematica sinfonica.
Dopo l’Ottava per il musicista parve ripetersi l’eccezionale congiuntura che negli anni 1807-08 lo vide consacrarsi parallelamente alla Quinta e alla Sesta: oltre a una sinfonia in re minore da dedicare alla Società Filarmonica di Londra, il compositore pensava a una “sinfonia tedesca” nella quale sarebbe dovuto intervenire un coro. Ancora nel 1822 Beethoven affermava l’intenzione di portare a compimento “due grandi sinfonie, molto differenti”. Ma, appena entrò in diretta fase compositiva, egli non riuscì più a mantenere distinti i due progetti che furono così fusi in uno solo.
Se Beethoven aveva fondato nelle sue sinfonie un organismo capace ogni volta di conquistare una sua autosufficienza e un’autonomia di significato, la Nona è l’opera che di questo ciclo esaurisce il principio, capace di proiettare la sua dimensione verso orizzonti che non si accontentano più di delimitare una singola area d’azione dell’intelletto, ma che sconfinano oltre i limiti delle umane prospettive.
Il musicista aveva già acquisito una posizione di superiore giudizio delle cose nel momento in cui la Sesta Sinfonia gli dettava la ritrovata regola di una natura perenne, grembo di una vita pulsante oltre il tempo, pace e ristoro del pensiero, dopo le accese battaglie ricondotto all’ordine armonioso di equilibri immutabili. Il passo successivo e ultimo si compie nella Nona, la quale sale l’ultimo gradino innalzando un inno che nella gioia celebra un ideale di religione ritrovata, dopo un periodo di cieca e ostinata fiducia nell’umano.
Il coro finale è sì voce di popolo, voce di plebe riscattata dai nuovi patti sociali, ma rimane veicolo di idealità ultraterrena, della “gioia” come “scintilla divina”.
D’altronde la funzione liturgica non è solo espletata nel finale, ma subordina pure l’Adagio molto e cantabile in posizione di terzo movimento, il quale, succedendo esso eccezionalmente allo scherzo, ha lo scopo di suggellare un equilibrio che, collegando i due movimenti a progressione ininterrotta verso la luce rivelata da entità soprannaturali, si risolve a favore di un ideale celeste. Non a caso il recitativo di violoncelli e contrabbassi che introduce l’Ode alla gioia, il quale in maniera di prologo didascalicamente scaccia la tentazione contenuta nelle citazioni evocate dai precedenti movimenti come richiamo a gioia terrena, sulla distesa citazione dell’Adagio rinuncia all’impennata e non solo risponde sommesso ma, attonitamente irretito nella stessa eterea ambientazione sonora di flauto, oboi, clarinetti e fagotti che l’aveva enunciato, proprio in virtù di ciò transita verso il primo accenno al tema della gioia.
L’Adagio è una pagina accorata la quale, più di ogni altro momento della sinfonia, palpita nel fuoco di pallide passioni definitivamente consegnate alla memoria e quindi risolve trascendentalmente una materia che, storicamente, i tempi lenti fin da Haydn e da Mozart già avevano spesso rivendicato ad altezze spirituali.
Qualcuno ha affermato che, per capire il messaggio dell’ultima sinfonia beethoveniana, occorrerebbe attendere il finale, il quale, per mezzo dell’elemento chiarificatore rappresentato dalla parola schilleriana, compendierebbe il senso del capolavoro nella vittoria di un supremo principio di fede ideale. In verità tale assunto informa l’intera composizione, che, se nei primi due movimenti rappresenta il ritorno agli ideali positivi, attivi, di diretto intervento nel reale cari al Beethoven della prima maniera, nel vitalismo esasperato dello Scherzo ad esempio lascia intravvedere ben altro oltre la diretta espressione di esultanza. Non c’è infatti scherzo beethoveniano più di questo teso nella formulazione tematica generatrice, racchiusa in una sola battuta ternaria e compresa in fortissimo tra lunghe pause. La dinamica a cui soggiace tale singolare tema va quindi da un minimo evento a un massimo scatenamento, succedendo alle otto battute di esposizione del materiale tematico in una ridda incessante che proietta il tema nel vortice di un baccanale, di un martellamento ritmico, che porta allo stordimento, alla perdita stessa della nozione di tempo e durata.
Nozione che svanisce totalmente nel Trio, data la concezione di un nuovo tema rapportabile alla struttura circolare di quello svolgimento che, nell’effetto di rallentamento, e attraverso il prevalere della melodia, si configura come un corale di letizia, di felicità nell’oblìo.
Ugualmente il primo movimento ciclopico nelle dimensioni, che nel lento incedere potrebbe ricordare il primo tempo dell’Eroica, solo in apparenza regge al confronto.
Nell’Allegro infatti non si instaurano certezze. L’indistinto vi domina: una lunga introduzione che prende le mosse da un’armonia cava (senza la terza e quindi indecisa tra maggiore e minore) porta a un’esposizione tematica che di perentorio possiede solo lo scattante gesto ritmico, essendo anche qui il tema ridotto a fondamento della materia, ad atomo ricomponibile in molecole molteplici e quindi manipolabile nel contesto di un discorso esplorativo mirante a scavare al di là della stessa realtà fisica del suono. Non sfuggono infatti all’appuntamento i momenti di esplicita natura simbologica, quali il tellurico sussulto dell’orchestra all’inizio della ripresa che, anche in virtù di una retorica settecentesca (si pensi alla pittura haydniana de La creazione) ci pone faccia a faccia con il caos, in cui solo lentamente si organizza il balbettìo di una melodia.
Da un altro terrifico sussulto prende d’altronde le mosse anche il quarto movimento, confermando il piano estremamente unitario di un’opera che, alla tensione ideale per valori morali di portata universale riscoperti nella natura perenne dell’animo umano, accompagna una tensione metafisica che rincorre, oltre l’apparenza sonora, principî organizzativi di un ordine più profondo. In questo senso l’intero primo movimento risulta intriso di questa problematica viva nelle opere del cosiddetto “terzo stile” beethoveniano.
La Nona tuttavia è l’unica composizione orchestrale riconducibile a questa terza fase, per cui gli esiti a cui essa giunge rimangono unici e perciò ragguardevoli.
Per esempio non è il contrappunto inteso come organizzazione di microrapporti tra le parti (evidente negli ultimi quartetti) a interessare l’autore, ma piuttosto le proporzioni della forma nel senso della costruzione (dell’assetto architetturale) che suscitano il suo interesse e che, ridimensionando il valore della tematica, nella dilatazione liberano da ogni costrizione il fattore timbrico.
Un nuovo modo di intendere il colore strumentale, nelle combinazioni dei fiati soprattutto, dà luogo a nuovi esiti di scrittura, ad agglomerati pulviscolari dove l’organizzazione timbrica prevale addirittura su quella sonatistica, in formule che non hanno riscontro lungo tutto l’Ottocento.
La volta stellata e oltre la quale Schiller appellava l’umanità a cercare Dio, immagine assunta da Beethoven a conclusione della sua sinfonia, è la stessa a cui mira ormai la risonanza della sua musica. E se altri grandi compositori che lo precedettero, confrontati con lo stesso problema, lo affrontarono facendo capo ai principî severi di una scolastica musicale ereditata, Beethoven lo affrontò nella solitudine di un’esperienza che, quindi, anche di fronte al venir meno della conclamata supremazia dell’io, non rinunciava a fare appello a quel tipo di coscienza individuale che egli aveva contribuito ad acquisire definitivamente all’epoca moderna.