Schumann: una sinfonia dal percorso gioioso
Dopo Beethoven, ma già con Beethoven, le tappe evolutive della sinfonia si situarono prevalentemente nelle zone più tormentate della coscienza del tempo
(Brahms, Bruckner, Mahler, Franck, ecc.), sull’orlo della crisi per intenderci dove il mutamento era appunto dettato dal senso di vanità connesso al fatto di dover perpetuare modelli suscettibili di esaurimento.
La Sinfonia n. 4 in re min. op. 120 di Schumann è invece innovatrice al di là, meglio al di fuori del senso tragico gravante sull’evoluzione di tal genere.
Già l’azione dissolutrice di ogni costrizione formale nei suoi giovanili pezzi pianistici era stata un’operazione indolore, condotta nel segno di una gioia di vivere capace di aprire ferite profonde ma presto rimarginabili.
Nella Quarta sinfonia le ferite inferte al corpo sinfonico sono profonde ma facilmente rimarginabili. Ciò che traspare con evidenza nel lavoro sinfonico schumanniano è la consapevolezza che in questa sede non era più permessa l’espressione totalmente abbandonata agli impulsi vitali individuali, ma occorresse fare i conti con le regole di un gioco che imponeva nei confronti della «sinfonia» un atteggiamento sacrale.
Ciò che avviene nelle sinfonie schumanniane, in confronto ad esempio con il tentativo di sciogliere il tragico sviluppo sinfonico nella delirante risata di un Mahler (ma senza giungere a Mahler si pensi solo a Berlioz o al tentativo dell’Ottava beethoveniana di restaurare la serenità), è un processo inverso che pretende di trasformare la propria originale disposizione alla felicità in sentimento profondo di fatalità.
Non a caso l’unità strutturale della Quarta prima ancora che tematica è ritmica, nel segno della misura marziale. Il ritmo di marcia qui così tanto e a volte fastidiosamente insistente, che si può leggere in trasparenza anche nei momenti in cui la misura reale è indicata in tutt’altro modo (nel tre quarti dello Scherzo ad esempio), è il risultato di un progetto tendente a sussumere il ‘tempo individuale’ nel ‘tempo dello spirito’.
Sennonché il risultato reale non è nemmeno in condizione di assicurare a questo gigantesco monumento alla marcia il grado di solennità voluto, producendo invece l’effetto diverso della sfilata gioiosa di un esercito nel giorno di festa, non nel combattimento bensì nella celebrazione della vittoria. Il senso del negativo, dei limiti della fiducia nella garanzia formale, non è voluto uscire, anzi la dimensione marziale ha dato forza ulteriore ai valori affermativi.
La frammentazione tematica dell’opera, che in un’altra prospettiva avrebbe potuto portare l’autore sull’orlo di un abisso, qui si risolve in fantastico carosello di temi disegnati con tratto sicuro. La strumentazione stessa, che si avvale di ogni sfumatura tentando addirittura l’esplorazione di una dimensione puramente timbrica, non riesce a incrinare il valore positivo rappresentato dal canto che sgorga lineare da ogni piega del variegato tessuto sinfonico.
Ciò che è assente effettivamente in Schumann è il senso dello sviluppo, ricreato solo mimandone le parvenze, facendo cioè confluire in momenti determinati una moltitudine di temi i quali però, rifiutando di annullarsi, reagiscono prepotentemente ed affermano una loro completa autonomia.
A ben guardare, infatti, la concezione ciclica di quest’opera, comunemente ritenuta un valore esemplare lasciato da Schumann ai posteri, è solo apparente, leggibile cioè a un primo livello di analisi. In altre parole tale concezione ciclica è una pretesa esteriore. In realtà la composizione non si regge tanto sulle parentele tematiche, bensì sull’incessante avvicendamento di temi dalla fisionomia inconfondibile e sempre ben caratterizzati così da fornire un saggio di rapida mutevolezza di stati d’animo, una girandola vorticosa di apparizioni fulminee che riporta l’opera all’estetica della libertà fantastica formulata da Schumann nei suoi primi anni di attività e che rappresenta la sua eredità più autentica e originale.