• Diario d'ascolto
  • 5 Gennaio 2016

    Selva morale e spirituale

      Carlo Piccardi

    Le occasioni in cui Claudio Monteverdi ebbe modo di lasciare testimonianza diretta della musica religiosa composta per le festività che si celebravano nella chiesa di San Marco a Venezia ricorrono curiosamente nelle sue lettere associate all’idea di un compito gravoso.

    Il compositore, che nel 1613 era stato chiamato a ricoprire la carica di maestro di cappella fra le più importanti se non la maggiore dell’Italia di quel tempo, apparentemente lasciava quindi intendere di svolgere l’incarico ufficiale che gli era stato affidato più come obbligo che come convinta vocazione.

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    Il fatto può stupire e sembrare addirittura incredibile in un musicista già assurto in quegli anni ad altissima fama, sotto la cui guida si venivano formando numerosi discepoli che avrebbero assicurato la continuazione della gloria artistica di Venezia, e il cui nome attirava dall’estero i compositori più avvertiti quali Schütz il quale, dopo essere stato allievo di Giovanni Gabrieli, fece ritorno nella città lagunare per rendersi conto dei progressi che l’arte di Monteverdi aveva impresso alla vita musicale della Serenissima.

    In realtà il problema va visto nel contesto del significato che conservavano le pratiche musicali di allora, dove la funzione del maestro di cappella, per quanto emancipata attraverso la svolta indicata proprio da Monteverdi nel Vespro del 1610, rimaneva ancora subordinata alle necessità di un servizio regolato da norme che, in seguito alle imposizioni controriformistiche, continuavano a riprodurre sotto nuova veste le irrinunciabili ragioni limitative del culto.

    In questo senso importa rilevare nella Selva morale e spirituale, in cui nel 1641 il compositore aveva raccolto il meglio della sua produzione religiosa veneziana, la presenza di una Messa dall’aspetto arcaizzante, alla quale va aggiunta una seconda e simile Messa pubblicata nel 1649 dopo la sua morte in una raccolta curata dal Vincenti.

    San Marco Interno

    Tali composizioni, che testimoniano la costante frequentazione del compositore con lo stilus antiquus come capacità e necessità di misurarsi costantemente con un modello sopravvissuto sul terreno della stessa praticabilità liturgica, oltre a chiarire la qualità del progresso raggiunto dalla definitiva estensione dello stile recitativo e dello stile concertato in àmbito chiesastico mantenevano viva una dialettica capace di condizionare le più audaci aperture espressive concesse alla composizione sacra. Se l’ultimo brano stampato nella Selva, il Pianto della Madonna, si presenta come travestimento su testo latino del Lamento d’Arianna (a sancire la definitiva rottura della barriera fino allora riconosciuta tra l’espressione religiosa e quella profana), va subito ricordato che esso non fa capo a un testo propriamente liturgico e che le altre composizioni della raccolta non raggiungono la stessa qualità d’espressione, prescegliendo un livello situato a metà strada tra i termini rappresentati tra la più raffinata affettuosità delle forme monodiche profane e la predisposizione devozionale inerente al modello polifonico cinquecentesco.

    In questo senso va riconsiderata la libertà espressiva e l’audacia inventiva del Vespro mantovano del 1610 dove l’apparente ossequio al rigoroso assetto liturgico non basta a fugare il sospetto che il capolavoro sia stato concepito come musica reservata destinata all’uso aristocratico della cappella ducale. Non si spiegherebbe altrimenti la regressione delle musiche della raccolta del 1641 verso un modello sì memore delle acquisizioni espressive ormai assicurate anche all’àmbito religioso, ma anche rigorosamente teso ad integrarle senza sussulto in un assetto stilistico mirante a preservare l’antico compito edificante assegnato alla composizione liturgica, accentuando la predominanza dell’aspetto collettivo della partecipazione al culto sull’urgenza delle ragioni soggettive portate in primo piano dall’applicazione delle nuove concezioni stilistiche monodiche.

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    Monteverdi beninteso non ha rinunciato alla scelta della concezione compositiva che, come «seconda pratica», concerne l’intera sua opera considerata nella sua globalità, ma, ascoltando il cromatismo che s’insinua nelle linee vocali del Salve regina alle parole «suspiramus gementes et flentes», non possiamo fare a meno di avvertire come l’appello a uno dei procedimenti più raffinati della più nobile maniera sia privato della componente più conturbante e più seducente per mezzo dell’esatta disposizione a simmetrie che ne ridimensiona la portata espressiva. Se il trattamento corale del Gloria o dei salmi in genere accoglie la tecnica gabrieliana incrementando una ricerca armonica capace di ammorbidire le masse sonore in momenti più sfaccettati, dove la monumentalità cede alla spinta che dal basso attenua la predisposizione contemplativa in favore dell’adesione più umanamente compartecipe, rimane ossequiata la struttura volumetrica dove l’affermazione di equilibrate proporzioni architettoniche perpetua l’atteggiamento che nella ieraticità formale mantiene viva la funzione mediatrice della composizione liturgica, riassorbendo ogni apporto espressivo individuale nel concetto del culto inteso come meditazione impersonale e comunitaria.

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    Sennonché a Monteverdi non era più dato di riprodurre passivamente l’asettico modello rinascimentale, semmai praticabile come esercizio intellettuale nelle citate messe, per cui, esorcizzata pure ogni tentazione verso la monumentalità fine a se stessa, assistiamo a un recupero espressivo proprio sul versante che gli imponeva maggiore sottomissione al compito liturgico. I bassi ostinati, che nel Beatus vir e soprattutto nel Laetatus sum sembrano irrigidire meccanicamente le maglie della composizione, in realtà sostengono il tenue fervore del canto che nella semplicità dei procedimenti stilistici viene ricondotto ad umile espressività dove, apparentandosi a volte addirittura al serafico candore della laude vallicelliana, l’accento individualistico, pur dimesso nel suo svolgimento reverenziale, riesce inequivocabilmente ad affermare le ragioni di una religiosità più umanizzata, legittimando una definizione della composizione liturgica come sintesi tra le acquisizioni stilistiche più recenti e gli aspetti irrinunciabili alternativamente affermati dal ruolo allora ancora vitale della tradizione polifonica cinquecentesca. 

    Crediti per le immagini
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