STOCKHAUSEN: UN PROFETA IN SCENA
Certamente il teatro è sempre stato fucina di riforme estetiche, anche quello musicale. Quando dalle riforme si passò alla rivoluzione, esso dovette cedere il passo ad ambiti di comunicazione che, prima di procurarle la vasta risonanza del luogo scenico, le consentissero di verificare i provocanti aspetti innovativi in termini riservati al privato collaudo di un’inedita maniera. Quanto contasse per la Scuola di Vienna il “Verein für musikalische Privataufführungen” è risaputo e le composizioni che Arnold Schönberg e compagni vi presentarono sarebbero state inconcepibili nei luoghi deputati del consumo musicale dell’epoca.
È la regola dell’avanguardia che non fu smentita nemmeno dai chiassosi gruppi di punta parigini i quali, mirando al teatro per necessità di dar battaglia ai gusti della borghesia che vi si dava convegno, in realtà (dal tempo dei «Ballets russes» in poi) dovettero accontentarsi di misurarsi con un’élite, cioè con la parte di quel pubblico disposta a stare al gioco. Tant’è che, anziché scuotere dalle fondamenta l’edificio storico del teatro, fu il teatro stesso, felicemente sopravvissuto, ad assorbire l’urto di quelle espressioni e a tramandarcele oggi come testimonianza ineludibile della vocazione dissacratoria dell’arte nel nostro secolo. La radicalizzazione delle avanguardie nell’ultimo dopoguerra non mutò i presupposti: il teatro rimase lo spazio per eccellenza ritenuto agente d’integrazione al livello costituito della società.
Di qui l’anatema scagliato dai rappresentanti della linea ortodossa di Darmstadt contro il compromesso ‘operistico’ di un Hans-Werner Henze, oppure la diffidenza nutrita verso il primo dei postweberniani, Luigi Nono, il quale non ebbe mai esitazioni a cimentarsi con la parola cantata ben presto trasformata in personaggio attivo. In seguito negli anni Settanta, lasciata alle spalle l’epoca dei laboratori della dodecafonia integrale – la regola ‘monastica’ di quel programma di continenza espressiva e collettiva che fu la scuola del serialismo -, nel clima isolazionistico in cui maturarono le varie esperienze individuali si affacciò di nuovo la prospettiva del teatro.
Sennonché, anziché luogo di confronto aspro e critico con spettatori estesi alle vaste cerchie, esso fu chiamato in causa come luogo di consacrazione. In verità se ancora sussisteva ragione di comunanza fra gli esponenti della generazione degli allora cinquantenni che avevano fatto la storia della musica del dopoguerra, essa era da individuare proprio lì, nel teatro riscoperto non già come prova di più completo ed esaustivo livello di comunicazione, bensì nel suo valore di istituzione, di strumento del potere politico il quale, come ai tempi dell’“ancien régime”, non rinunciava a dotarlo di tutte quelle risorse necessarie a farne specchio spettacolare di modelli culturali formalizzati. In altre parole, alla divergenza sempre più inconciliabile delle scelte estetiche faceva riscontro la sintomatica convergenza sull’uso sociale del prodotto artistico che nel teatro riconosce il fattore privilegiato dell’integrazione.
Mauricio Kagel
Luigi Nono
Tralasciando Henze, la cui dedizione al teatro ha mutato di aspetto ma non di sostanza dopo la svolta del 1968, considerando che lo sviluppo teatrale di Luigi Nono ne Al gran sole carico d’amore (1975) più che dinamizzare lo spazio scenico ne riscopriva la sacralità, appurando in Mauricio Kagel la rassegnazione all’impotenza del gesto dissacratorio e in Sylvano Bussotti la fuga senza ritorno verso l’esornativo, György Ligeti in Le Grand Macabre (1978) e Krzysztof Penderecki in Paradise lost (1978), pur mettendo in opera tutti gli espedienti necessari a mostrare il superamento della convenzione, non rinunciavano a considerare il teatro come luogo d’incantamento, dove il tempo si ferma per sottrarre qualche migliaio di spettatori alla realtà del quotidiano, sull’arco della canonica durata di tre ore serali capaci di confermare l’intramontabilità del rito culturale. Da ultimo, ma in modo non meno clamoroso, è da registrare l’approdo teatrale di Karlheinz Stockhausen a cui il teatro alla Scala di Milano commissionò Donnerstag, rappresentato nel 1981 in un allestimento di grande pregio per il quale erano state mobilitate le migliori forze del momento (dal regista Luca Ronconi, alla scenografa Gae Aulenti, al direttore Peter Eötvös).
Autoritarismo
In verità se esiste compositore non bisognoso di consacrazione questi sarebbe proprio Stockhausen, essendosi egli fin dagli inizi mosso in un ambito che ha sempre trovato l’ufficialità pronta a trasformare le sue intuizioni e le sue formulazioni in regole del gioco di un’avanguardia ormai adottata dall’establishment culturale. In questo senso non esiste svolta reale tra l’epoca della ferrea disciplina strutturalistica - di uno Stockhausen nelle vesti di agente tecnocratico di una concezione che aveva sottratto la musica alla gerarchia delle funzioni espressive - e quella degli anni che ha visto il musicista reincarnarsi, con fattezze di santone indiano, nel ruolo di un artista vate intento a scrutare il destino dell’umanità chiamata ad esercitare la propria sensibilità ai remoti livelli psichici inaccessibili agli strumenti della ragione. In questo senso Stockhausen non ebbe bisogno del teatro come luogo capace di dotare di consacrata autorità la realizzazione sonora delle sue intuizioni.
L’autorità gli derivò invece da fatti assai più esteriori: l’essere stato fra i primi esponenti della scuola darmstadtiana e soprattutto, quale maggiore e più attivo rappresentante della nuova musica tedesca, l’aver coniugato le istanze di rifondazione dell’avanguardia con le speranze di una Germania ridotta dall’azzeramento dei propri valori sociali, politici, culturali a intravvedere la via del riscatto nella gratificante scelta tecnocratica che, issando in breve questa nazione al primo posto dell’area europeo-occidentale, assicurava posizione di primato pure agli agenti della sua cultura.
Non fu quindi per mezzo di finzione teatrale che intorno a Stockhausen si coagulò un modello storico di autoritarismo culturale. Allo scopo bastò l’individuazione di quel principio profondamente radicato nella civiltà musicale tedesca che, attraverso la forma aperta a tempi dilatati di svolgimento, consentì a quella musica di elevare il discorso ad articolazione filosofica.
In un pregevole contributo di Luigi Pestalozza (Stockhausen e l’autoritarismo musicale, in “Quindici”, n. 14, dicembre 1968) è già stato dimostrato come la sfasatura per eccesso delle dimensioni temporali nelle composizioni di Stockhausen dell’ultimo periodo non possa sfuggire al riscontro con la lunghezza wagneriana assunta come atto di terrorismo culturale, mirante a spossare l’ascoltatore sotto il peso di quantità sonore superiori alla sua capienza d’ascolto. Quando Stockhausen, dopo quattro ore e mezzo di Donnerstag, al pubblico estenuato uscito in Piazza della Scala osa infliggere trenta minuti supplementari di cinque trombe che dai terrazzi dei palazzi circostanti lanciano eroiche e squillanti formule ripetute, esercita un tipo ben preciso di autoritarismo che consiste nel violare il diritto dello spettatore di ritrovarsi padrone di se stesso al di là della soglia del teatro, imponendogli le regole della finzione anche nel momento in cui il ritorno alla realtà dovrebbe fargli sorgere il primo giudizio distaccato sull’opera.
Allora il pensiero corre a Wagner non solo per i mitici segnali di tromba che ricordano i presagi del tenebroso corno di Sigfrido, né per l’ambizioso annuncio che Donnerstag avrebbe costituito una delle sette tappe intitolate ai giorni della settimana destinate come nuova “tetralogia” a essere riunite nel ciclo di Licht, ma soprattutto per la realizzazione, con Bayreuth, di un ideale di teatro capace di informare di sé l’ambiente circostante, monopolisticamente asservito alla volontà di una personalità che del proprio pensiero individuale ritenne di poter disporre come di religione di stato. Non per niente Stockhausen in Donnerstag non ha avuto cura di dissimulare i richiami al Parsifal, da cui è mutuato il cammino verso la redenzione, che è simile nel livello sincretico di fusione di simbologia cristiana e mitologia pagana e che soprattutto, insieme all’intera opera di Wagner, fornisce l’esempio di quel “Gesamtkunstwerk” la cui ideologia sottende più che mai il lavoro del moderno musicista tedesco, che qui figura come autore della musica, del testo, della danza, dell’azione e dei gesti.
Identità tedesca
In questo senso l’approdo di Stockhausen al teatro appariva scontato e inevitabile anche al di là dell’aspirazione all’istituzionalizzazione estetica da esso consentita, cioè nel disvelamento del suo potere ritualistico che va oltre la stessa esperienza wagneriana per cogliere nella Zauberflöte il primo esempio musicale che elevava il teatro a tempio di religione civile edificata dall’uomo per virtù di ragione. Il primo atto di Donnerstag nello svolgimento dell’iter esistenziale di Michael - spirito eterno incarnato nella figura umana di un fanciullo portato alla maturità attraverso il superamento di tappe prescritte - si presenta nella fisionomia di un cammino iniziatico che non a caso culmina nell’“esame” per l’ammissione di Michael alla “Scuola Superiore di Musica”, prova che non può fugare l’impressione di ripercorrere i significati dei gradi massonici. Se poi si tiene conto del valore simbolico attribuito da Mozart alle cavernose sonorità dei corni di bassetto, il fatto di riascoltare il suono di questo strumento sulla bocca di Luneva, la fanciulla stellare mezza donna e mezzo uccello che scompare alla vista di Michael dopo avergli destato nell’animo il primo sentimento d’amore, vincola ancor più il discorso di Donnerstag a una liturgia dettata dall’esigenza di una regola di civile moralità. Il riscontro con Il flauto magico è anche altrove, soprattutto nel festoso, comico e ingenuo corteggiamento di Luneva da parte di Michael che chiama in causa l’ilare istintività di Papageno.
Ma in verità in questo aspetto si evidenzia altresì tutta la difficoltà per la cultura tedesca di pervenire all’arte del riso, la quale non è altro che la riscoperta del livello di comunicazione per eccellenza nell’uomo liberato dal fardello delle superfetazioni culturali.
Ora, con tutte le obiezioni e le perplessità che si possono nutrire nei confronti dell’esoterismo stockhauseniano, non si potrà mai dire che in realtà la sua opera sia andata incontro al pericolo di smarrire le radici nazionali, poiché la storica identità culturale tedesca più che mai è risorta in Donnerstag, dove il peso di un’ideologia macerata grava pure sugli attimi di gaiezza che come boccata d’ossigeno il denso procedere dell’opera concede qua e là, dove il misticismo esoterico appare perfettamente iscritto nella visione di un io totalitario incapace di restituirsi al mondo nella dimensione dei comuni rapporti tra gli uomini e le cose, e dove l’ingombrante farcitura di simboli e di significati risponde al bisogno dell’individuo di crearsi uno spazio vitale a propria immagine e somiglianza, tanto più vasto e spropositato quanto più profonda è la sua solitudine.
Se Stockhausen non avrebbe mai battuto la strada del neoromanticismo di maniera, disinvoltamente aperta dalle nuove generazioni di artisti tedeschi stanchi delle elucubrazioni parascientifiche che per decenni hanno irretito la musica in uno stato di penitenza espressiva, egli rimane romantico nel senso più pieno del termine, del musicista lasciato solo a decidere sull’interpretazione da dare al suo rapporto con il mondo e sullo stesso linguaggio necessario a trasmetterne la rappresentazione e il senso. Come Bayreuth, al di là dei significati nazionalistici che lo fecero meta di pellegrinaggi di massa, va visto come tempio della solitudine di un artista incapace di contatti col prossimo al di là del sistema di rapporti spiritualistici attraverso cui volle leggere il destino del creato, così Donnerstag si presenta come isola culturale, enorme e sontuosa ma resa inabbordabile da coste scoscese chiamate a preservarne i misteri, veri o presunti che siano.
Jamil Attar ed Emmanuelle Grach in Donnerstag Aus Licht. Royal Festival Hall, London.
Più che conseguente quindi è apparsa la determinazione in occasione della prima rappresentazione del lavoro – fino a che punto compiaciuta od opportunistica è difficile dire – di integrare all’allestimento almeno tre dei vari figli di Stockhausen, da Markus che nei panni di una delle figure della trinità di Michael (il trombettista, opposto al cantante e al danzatore) si assumeva il ruolo più eroico e più gravoso, a Majella la quale come accompagnatrice dell’esame era chiamata a sfoderare un pianismo infallibile per una musica che il padre sembrava averle modellato su misura con abbondante impiego di lirica effusività (nei limiti in cui tale attributo può addirsi a una composizione che affonda le radici nella “Neue Musik”), a Simon a cui nell’episodio paradisiaco era riservato un serafico intervento con il sassofono soprano. In altri termini lo sconfinato orizzonte universalisticodel lavoro denuncia il proprio risvolto problematico proprio nella soluzione «familiare» della rappresentazione, che maliziosamente siamo tentati di considerare (confortati anche dallo Stockhausen Verlag che vanta proprietà artistica su tutto quanto il musicista è andato a comporre) come avvisaglia di operazione non dissimile dall’impresa monopolistica gestita dalla dinastia dei Wagner nella cittadella bavarese. Se di opportunismo non è lecito parlare, è innegabile che ci troviamo di fronte a una sfida che, d’autorità e visibilmente, ha posto Stockhausen in condizione di dettar legge ai fruitori della sua arte senza conceder loro possibilità d’appello.
Isolamento culturale
In verità il lavoro si presenta debole teatralmente proprio per l’inesorabilità di tale forma di egocentrismo che, nonostante le apparenze (e come in Wagner), impedisce una reale dialettica nello svolgimento dell’azione, sviluppata al contrario assertivamente e perciò tendente alla staticità. Ecco quindi la funzione delle “formule” le quali, nonostante moderna e aggiornata definizione (“organismo musicale perfettamente definito, sin dal principio, in tutti i suoi parametri: altezze, relazioni intervallari orizzontali e verticali, pause, abbellimenti, durate, ritmi, intensità dinamiche e così via”, recitava il programma di sala), nella scoperta meccanicità del loro impiego tradiscono la stessa natura esteriore del Leitmotiv, che obbedisce ad intenzionalità anteposta, nei suoi riferimenti psicologici, simbolici e cabalistici, alla stessa funzionalità musicale. Un fattore dialettico vi sembrerebbe assegnato da Stockhausen, e se non ci inganniamo per la prima volta in modo evidente, all’elemento comico. Già abbiamo parlato di Michael adolescente e goffo corteggiatore, oltre cui occorre evocare la clownesca coppietta di rondini (clarinetto e corno di bassetto) che di soppiatto interviene nel secondo atto a far da contrappeso all’immaginoso ed esaltante viaggio di Michael intorno alla terra. In modo più elaborato assistiamo alla stessa operazione nel terzo atto con l’intromissione di Lucifer e con la contesa tra Michael e il diavolo, tutta giocata musicalmente a colpi di tromba e di trombone, in fantasioso e originale dispiegamento delle risorse strumentali maturate nei laboratori dell’avanguardia.
Ora se è vero che la farraginosa mitologia cristiano-pagana di Donnerstag, per quanto iperbolica, appare abbondantemente provvista di aulici attributi, tali interne risposte umoristiche (soprattutto la battaglia con il diavolo) potrebbero addirittura derivare da una sacra rappresentazione popolare. Sennonché le implicazioni rivelate da tale apertura, fatalmente destinate a riportare a misura d’uomo la materia trascendente che vi interagisce, non fanno testo apparendo come semplice momento divagante nel contesto macroscopico di una rappresentazione proiettata verso traguardi celebrativi. E, se occorre un momento della verità, questo è rappresentato dal terzo atto, dantesco nella concezione del «ritorno di Michael» in un al di là rimbombante nella gravità di voci giudicanti e dove le parole finali («Uomo sono diventato / per vedere me e DIO il Padre / come visione umana, / per portare la musica celeste agli uomini, / e la musica umana ai celesti, / affinché l’uomo ascolti DIO / e DIO esaudisca i suoi figli.») sono intonate a voce sola in una melopea attraverso cui ci sembra possibile leggere, allo stato di nevrosi, l’aspirazione alla purezza del gregoriano.
In un simile apparato alla Penderecki non manca quindi nemmeno la riscoperta dell’accordo tonale, immutabile e avvolgente, che sigla il passaggio al regno delle ombre, fermando il tempo scandito da cori invisibili. Con una caduta di gusto che gli estimatori dell’arte di Stockhausen avranno enorme difficoltà ad ammettere, la musica del terz’atto di Donnerstag rivaleggia con i più crassi lenocini sonori del compositore polacco, sposando senza più nessuna remora il concetto di una musica immaginifica realizzato nei termini di una teatralità manierata e regressiva. Non bastano infatti le novità rappresentate dai simboli gestuali organizzati o lo sdoppiamento dei ruoli tra cantanti, strumentisti e danzatori, a creare il nuovo autenticamente inteso. Persino il suono alonato dell’orchestra, che attraverso il tavolo di missaggio (a Milano direttamente posto sotto il controllo personale del compositore) passa agli altoparlanti, perde irrimediabilmente la capacità analitica che il mezzo elettroacustico aveva concesso alle sue prime operazioni, dotandole di provocante forza critica. L’apparato tecnico, che allora sembrava promettere l’avvento di una “terza epoca”, qui appare riassorbito nel flusso di una musica di atmosfera che ormai può suscitare reazione solo in orecchie edulcorate.
Sennonché un simile messaggio non è più misurabile né con il metro della regressione né con quello del progresso; esso sfugge a qualsiasi valutazione, lasciando nello spettatore come sola certezza il senso di incompatibilità che lo divide da un musicista che il meccanismo celebrativo messo in moto dal sensazionalismo dei mezzi di comunicazione di massa, e l’iperprotezionismo sociale responsabile della perdita di motivazione del fare artistico, hanno lanciato allo sbaraglio sorretto solo da proprie e non più verificate convinzioni, in uno stato di isolamento culturale e di arbitrarietà in cui sono rimessi in causa i principî stessi su cui si fonda la gerarchia dei valori che la nostra civiltà tramanda. È perciò probabile che l’esegesi più penetrante su Stockhausen, anziché dai musicologi, debba venire dai sociologi della cultura.